sabato 28 marzo 2015

LA FINE


LA FINE

Silenzio, è quasi mezzanotte
E nell' immobile tempo scorre
Sangue sovrano fermo e rappreso,
esso pur riconosciuto non fu

Sollevò l'aere, il breve istante
finì d'un tratto senz'avvisaglie
quel guerrer è in ogni dove
Risaputo che non darà mai pace

E' freddo, fermo e non può levarsi
da quell'etterno nido di paglia
egli più non potrà sollevarsi

E d'ogni parte giungeranno
Amari canteranno la sventura

Per quel che fu e più non sarà

mercoledì 25 marzo 2015

GIALLO DI SETTEMBRE

GIALLO DI SETTEMBRE

Nell'ultimo post vi avevo detto che le attività erano sospese fino a data da destinarsi. La data è stata destinata ed è proprio quella di oggi. Spero che le cose cambieranno, e penso di cambiare blog, in modo da avere più lettori, perché devo fare delle modifiche sostanziali.
Dico spesso che io scrivo per mia soddisfazione personale: è così, ma se posso discuterne con quelcuno è meglio, ma vedo che l'idea di questo blog non funziona, quindi bisognerà cambiare qualcosa.
Il racconto che vi propongo oggi è breve e non è nulla di serio. Giallo di settembre, anche se siamo a marzo.
E presto riprenderò anche Senza Titolo, così vi passo un altro pajo di capitoli. Quindi ogni tanto fate un salto qui, che ci mettete pochi secondi.

GIALLO DI SETTEMBRE


“E così sono corso via.
La notte era cattiva. C’era gente che mi cercava, m’inseguiva.
Non ricordo perché ce l’avessero con me.
Ero fatto e ubriaco.
I miei ricordi cominciano da qui. Da me che corro.
Prima, solo un insieme di immagini scollegate. Io che prendo bicchieri, che bevo. Le luci della pista. Il suono e il fumo. Gente che mi parla ma io non capisco. Un grumo di cose nere che si accalcano nei miei pensieri come scarafaggi. Un labirinto senza via d’uscita.
La rabbia, poi. Inutile, immensa.
E sono corso via, sì. Non so come, non so perché.
La notte aveva avvolto la città nel cellophane. Faceva troppo caldo e non riuscivo a respirare. L’estate non voleva mollare la sua presa umida e arroventata nonostante fosse già metà settembre.
Davvero non capivo! Certo, bene ora non sto, ma come potrei avere ucciso Leonard Cohen? No, assurdo, insensato.
La rabbia mi scuoteva, gli spasmi sulla mia cute si fecero più frequenti e pensai: quell'uomo era un poco di buono, e prima o poi doveva morire, ma, lo giuro sulla mia stessa anima: non sono stato io.
Certo, ora la polizia mi cercava. Ma non hanno caldo ad inseguirmi con quella lena?
E così mi andai a nascondere in un vicolo, e il vicolo era cieco, e quando mai ne faccio una giusta?
Mi girava la testa, il pensiero era solo uno, andarsene, in qualsiasi maniera, scappando, nascondendosi, sparendo sotto terra, morendo pure, ma non in mano agli sbirri.
Presi allora una scaletta a chiocciola che sormontava il vecchio e malconcio edificio. Gli scalini producevano un rumore metallico e sordo.
Osservai ancora la città nella sua cupa silenziosità, notte fonda, la gente tranquilla, io che scappo.
Arrivai al termine della scala, un vetro, lo frantumai e mi catapultai all'interno.
Il vuoto cercava di circondarmi, una stranza, con tutta probabilità, senza finestre. Tutto era buio, tutto taceva, non un rumore a fare presagire la mia presenza o quella di qualcun altro.
Mi asciugai il sudore alla fronte, avevo sete dopo la corsa.
A questo punto sentii i poliziotti passare sotto il vicolo? Che i avessero scorto mentre vi entravo? No, ormai erano passati diversi minuti; impossibile.
Guardai quel vetro, spaccato in maniera simmetrica, abbastanza da darmi fastidio, ebbi un rigurgito di alcool, lo vomitai per terra, l'odore mi avrebbe fatto vomitare, ma già stavo vomitando.
A quel punto ebbi l'idea: dovevo saltare già da quella finestra.
La stanza è senza via di uscita, prima o poi mi scopriranno.
E dovevo davvero essere pazzo, e che il lettore ora, in questo preciso istante mi insulti pure per la mia stupidità, perché avevo un posto sicuro, e non vi rimasi, ma anzi, saltai giù.
Ma fui attento nel saltare, ed atterrai proprio sulla testa del poliziotto. C'era solo lui, l'altro probabilmente era tornato indietro.
Dell'impatto non ricordo granché, ero troppo fatto poiché io possa avere dei ricordi.
Finii addosso ad un bidone della spazzatura e picchiai di testa, rimasi a terra svenuto qualche minuto.
Poi mi svegliai, il poliziotto era morto, ma io ero vivo.
Cosa mi rimaneva da fare? Scappare, ovvio.
Finché Dio lo vorrà, io continuerò a scappare, finché la mia corsa non verrà fermata.

Fuggivo, fuggivo verso l'orizzonte dell'alba. La valigia non pesante, la valigia dell'emigrante, portavo solo con me la speranza, da sempre mia compagna di viaggio.