martedì 11 agosto 2015

LA STORIA

LA STORIA

CULTURA D'ESTATE 64


Oggi rianalizziamo le tappe principali della storia mondiale contemporanea. Per voi ho preparato una selezione da un testo bellissimo trovato sul sito www.larapedia.it

Rivoluzioni in Cina La rivoluzione comunista 
In Cina, quasi contemporaneamente, la fine dell'occupazione giapponese aveva coinciso con una forte ripresa del movimento nazionalista di Chiang Kai-shek il quale, anche grazie agli aiuti militari forniti dagli Stati Uniti, era riuscito a instaurare una dittatura militare (1945). Il processo di riavvicinamento con i comunisti, provocato dall'attacco giapponese, subì una brusca interruzione.
Falliti i tentativi per la costituzione di un governo di coalizione, gli scontri armati tra le due fazioni si inasprirono notevolmente (1946) e sfociarono in guerra aperta non appena l'esercito comunista iniziò la sua avanzata.
Dopo l'iniziale conquista della Manciuria, avvenuta nel corso del 1947, l'esercito popolare guidato da Mao attraversò le montagne della Cina per evitare l'attacco frontale dell'esercito ufficiale e nel contempo per raccogliere ulteriori forze tra i contadini. L'offensiva comunista provocò il totale disfacimento dell'esercito nazionalista e portò alla proclamazione della Repubblica popolare cinese (1° ottobre 1949), mentre Chiang Kai-shek e il governo del Kuomintang riparavano a Formosa.
La rivoluzione culturale 
Il contrasto - non solo ideologico - con l'Unione Sovietica fece da sfondo al piano di Mao per l'ammodernamento del paese. Tuttavia il "grande balzo in avanti" (1958), basato sull'istituzione delle comuni popolari e che avrebbe dovuto consentire alla Cina una radicale trasformazione delle sue strutture socioeconomiche e un aumento verticale degli indici produttivi, non ottenne tutti i risultati sperati.
Il fallimento dell'operazione, dovuto anche al venir meno degli aiuti finanziari sovietici, inasprì i contrasti all'interno del mondo politico cinese. Le tendenze revisioniste affioranti nel partito furono fronteggiate da Mao attraverso la cosiddetta "grande rivoluzione culturale proletaria" (settembre 1965 - ottobre 1968), movimento che intese risolvere una delle "contraddizioni interne" (Mao) del socialismo: quella tra intellettuali e lavoratori.
Il movimento intendeva forzare a un incontro tra le due "classi" affinché gli intellettuali apprendessero dai lavoratori a pensare concretamente le contraddizioni. Purtroppo la vastità del territorio accrebbe la difficoltà di controllare la "rivoluzione culturale", che in molti luoghi degenerò in una persecuzione politica.Lotte in Sudamerica L'ingerenza statunitense in America latina 
Ingerenze di tipo neocoloniale, che si concretizzarono in aiuti economici e nella fornitura di armi e consiglieri militari, furono nel corso degli anni Sessanta pratica comune a Unione Sovietica e Cina, che le indirizzarono prevalentemente nei confronti dei paesi afro-asiatici. Nell'ambito dei processi di neocolonizzazione l'America Latina costituì, tuttavia, un capitolo particolare. Le condizioni di estrema arretratezza dell'intero subcontinente americano, peggiorate dalle conseguenze del secondo conflitto mondiale, e la presenza di un capitalismo arretrato non disposto a investimenti produttivi e di un latifondo estesissimo, costituirono il retroterra ideale per un rafforzamento del controllo statunitense dell'area.
Tuttavia, il fallimento in Argentina del tentativo parafascista a opera di Juan Domingo Perón e la scomparsa dalla scena brasiliana del dittatore Getulio Vargas provocarono una incrinatura profonda all'interno dell'Organizzazione degli Stati Americani (Oas, sancita dal patto di Rio, 1947-1948), che era stata promossa dagli Stati Uniti con finalità di controllo economico e con funzioni di filtro anticomunista.
La rivoluzione di Cuba 
L'episodio della rivoluzione cubana, che avrebbe potuto segnare una svolta sulla strada dell'emancipazione dell'America Latina, costituì in realtà solo una parentesi - anche se densa di significati ideologici e in sé duratura - nella linea di ingerenza seguita da Washington. La guerriglia contro il regime dittatoriale di Fulgencio Batista (1956-1959) aveva portato all'instaurazione di un governo rivoluzionario, guidato da Fidel Castro e dal celebre guerrigliero argentino Ernesto "Che" Guevara.
L'attuazione di misure quali l'esproprio delle raffinerie americane, l'introduzione di radicali riforme agrarie e, soprattutto, la creazione di uno Stato a base socialista con l'appoggio sovietico provocarono l'immediata reazione degli Stati Uniti.
In seguito alla rottura delle relazioni diplomatiche (3 gennaio 1961) e la fallita invasione dell'isola da parte americana (sbarco nella baia dei Porci), il paese si trovò al centro di un momento di altissima tensione internazionale per aver concesso all'Urss la facoltà di installare alcune basi missilistiche sul proprio territorio (ottobre 1962).
Superato il momento più acuto della crisi, che tenne tutto il mondo con il fiato sospeso, Cuba riprese in tutta autonomia il proprio cammino. L'allineamento sempre più marcato alle posizioni sovietiche portò il paese, verso la fine degli anni Settanta, a divenire il braccio armato di Mosca in occasione di rivolte e contese scoppiate in terra d'Africa.
Cile: da Allende al colpo di stato di Pinochet  
L'esempio rivoluzionario cubano non venne seguito, se non in parte, dai popoli latinoamericani. Essi, anzi, si trovarono a subire nel corso degli anni Sessanta e Settanta un vero e proprio ritorno di fiamma dei regimi dittatoriali, tutti appoggiati in forma più o meno diretta dall'amministrazione statunitense.
Un caso tipico fu quello del Cile dove, nel settembre 1970, una schiacciante vittoria elettorale consegnava il potere all'esponente dell'Unidad Popular (fronte delle sinistre), Salvador Allende.
L'intensa politica di riforme e di nazionalizzazioni da lui avviata non ebbe il benestare di Washington, che giudicò più opportuna una campagna destabilizzante nei confronti del nuovo governo cileno. Il golpe militare, capitanato dal generale Augusto Pinochet e culminato nell'uccisione dello stesso presidente Allende, diede il via all'instaurazione di un nuovo regime dittatoriale filoamericano (11 settembre 1973), con il suo triste e immancabile corredo di morti, di persecuzioni e di totale soppressione delle libertà costituzionali.L'Urss da Krusciov a BrezneL'Unione Sovietica e Stalin 
Nel periodo immediatamente successivo la fine del secondo conflitto mondiale, l'Unione Sovietica si pose principalmente due obiettivi. Innanzi tutto una graduale estensione della sua sfera d'influenza attraverso un radicale processo di sovietizzazione dei paesi dell'Est europeo, sia dal punto di vista della struttura statale (governi a guida comunista ed estromissione di tutte le opposizioni), sia dal punto di vista dell'organizzazione economica (pianificazione). In secondo luogo, si verificò un'abnorme concentrazione del potere politico nelle mani di Stalin, segretario del Pcus, il quale instaurò un vero e proprio regime di terrore.
Gli stessi organi storici del partito comunista vennero di fatto esautorati, mentre venne perseguita e condannata in modo inflessibile qualsiasi deviazione interna ed esterna dalla linea dettata dal segretario (condanna del "titoismo" e della svolta jugoslava del 1948).
La svolta revisionista di Nikita Krusciov 
La morte di Stalin (1953) rappresentò un importante punto di svolta non solo nella vita politica interna dell'Unione Sovietica, ma anche nell'ambito dei delicati equilibri internazionali.
Dopo un periodo di gravi contrasti interni, culminati nell'uccisione del capo della polizia segreta Berija (10 luglio 1953), Nikita Krusciov, primo segretario del comitato centrale, si affermò come una delle personalità più forti dell'intero gruppo dirigente.
Immediate furono le ripercussioni: in politica estera venne perseguita una linea di disgelo nei rapporti con il blocco occidentale, che fu teorizzata nel principio della "coesistenza pacifica" (1953); all'interno si profilò la tendenza verso una progressiva liberalizzazione (riforma delle procedure giudiziarie, pene più miti, abolizione dei campi di lavoro) e una incentivazione delle attività agricole (campagna per la messa a coltura delle terre siberiane e kazahke, 1954) e della produzione dei beni di consumo. Simbolo del nuovo corso sovietico fu il discorso tenuto dallo stesso Krusciov in occasione del XX congresso del Pcus (14 febbraio 1956).
In quel contesto, Krusciov non esitò a denunciare apertamente i metodi autoritari e il culto della personalità che furono tipici di Stalin e della sua gestione del potere. L'atteggiamento ostile caratteristico del clima di tensione della guerra fredda lasciò il posto, nelle parole di Krusciov, a una proposta di distensione dei rapporti internazionali ispirata ai principi della pacifica convivenza, pur non implicando con ciò alcuna abdicazione ideologica.
Mentre lo sforzo in direzione di un maggiore sviluppo veniva esteso anche alle regioni asiatiche e l'amministrazione economica veniva completamente riformata (politica di decentramento, 1957-1958), la produzione fu decisamente orientata verso il settore dei beni di consumo, per consentire un aumento del tenore di vita della popolazione.
La rivolta ungherese 
La linea di apertura nei confronti delle "vie nazionali al socialismo", dichiarata nel corso del XX congresso del Pcus, spinse molti paesi del blocco orientale a operare con maggiore autonomia e a tentare soluzioni analoghe a quelle sperimentate in Unione Sovietica.
Tali mutamenti, unitamente alle speranze create dal processo di destalinizzazione avviato da Krusciov, suscitarono enorme entusiasmo nell'Est europeo, e una certa effervescenza sia nei settori della piccola borghesia sia nelle masse operaie. Segni evidenti del malessere e dell'insofferenza nei confronti della sovietizzazione forzata furono le rivolte di Berlino e di Poznan (giugno 1956), entrambe soffocate dall'esercito sovietico. Specie in Polonia il sentimento nazionale antirusso, fomentato dalla Chiesa locale guidata dal vescovo Stefan Wyszynsky, rimase vivissimo.
Esso non si spense nemmeno al momento dell'arrivo al potere di Wladislaw Gomulka (1956), dirigente comunista riabilitato dopo le pesanti accuse di deviazionismo di cui venne fatto oggetto nel 1951, e della successiva estromissione dei politici filostalinisti.
Fu tuttavia in Ungheria che il malessere popolare per il ritorno al potere del filosovietico Mátyas Rákosi si coagulò rapidamente in rivolta generalizzata contro il sistema sovietico e a favore del ripristino delle libertà civili.
Nell'ottobre 1956, facendo seguito alle proteste degli intellettuali raccolti intorno al circolo Petöfi, una sollevazione popolare degli abitanti di Budapest, presto estesasi a tutto il paese, condusse a sanguinosi scontri con le truppe sovietiche. Uno degli effetti della rivolta fu il ritorno al governo di Imre Nagy (1896-1958) - esautorato due anni prima da Rákosi e anch'egli accusato di revisionismo - il quale si impegnò a ripristinare il sistema democratico e ad attuare una politica estera autonoma (uscita dell'Ungheria dal patto di Varsavia, novembre 1956).
Il nuovo intervento di truppe sovietiche, favorito dalla richiesta di János Kádar, segretario del partito comunista polacco, portò alla repressione militare della rivolta e alla restaurazione di un governo ligio ai voleri dell'Unione Sovietica. Questo gesto brutale, che provocò l'unanime condanna internazionale e una ferita duratura nei rapporti tra i partiti comunisti occidentali e Mosca, in qualche modo circoscriveva rigorosamente i confini del processo di destalinizzazione avviato da Krusciov, in nome del quale l'Urss non era comunque disposta a sopportare lo sgretolamento del blocco comunista.I rapporti con la Cina 
La crisi di Suez del 1956 (animata dalla nazionalizzazione egiziana del canale, che comportò da un lato le proteste anglo-francesi e il ritiro dei loro contigenti e dall'altro gli aiuti sovietici all'Egitto), controbilanciando a livello politico e psicologico gli echi negativi prodotti dalla sanguinosa repressione della rivolta ungherese, consentì a Krusciov di uscire indenne da un periodo alquanto travagliato.
Egli trovò anzi il modo, una volta sbarazzatosi dell'opposizione interna (estromissione di Malenkov, di Kaganovic e di Molotov, 1957), di rafforzare il ruolo dell'URSS a livello internazionale attraverso un'attenta politica diplomatica volta a intrecciare relazioni amichevoli con molti paesi afro-asiatici (fase delle "iniziative dinamiche" e inaugurazione della linea terzomondista, 1957-62). Nuovi sviluppi ebbero anche i rapporti con la Cina che, subito dopo l'avvento al potere di Mao, furono regolati da un patto trentennale di amicizia, alleanza e reciproco aiuto (1950).
L'immenso paese asiatico si era venuto organizzando secondo modelli che tenevano nel debito conto le iniziali condizioni di sottosviluppo e di semidipendenza coloniale. Paese a fortissima vocazione agricola e guidato da uomini che, a dispetto delle coloriture ideologiche, tenevano in grande considerazione le tradizioni locali, la Cina non commise l'errore di Stalin di reprimere la classe dei contadini-proprietari e di attuare uno sfruttamento indiscriminato delle risorse agricole.
Pur includendo l'industrializzazione fra i propri obiettivi primari, il governo cinese mise in atto una politica di radicali riforme agrarie - volte alla redistribuzione delle terre ai contadini e alla creazione di grandi comunità agricole - che contribuirono a liberare il paese dagli spettri della fame, della disoccupazione e della mortalità infantile.
L'interpretazione ortodossa del marxismo-leninismo costituì lo spartiacque ideologico nei confronti di quello che Mao definì il "revisionismo sovietico" affermatosi dopo la morte di Stalin. Il conflitto con Mosca si giocò non soltanto sul piano ideologico, con il netto rifiuto del principio kruscioviano della coesistenza pacifica (conferenze di Bucarest e di Mosca, 1960), ma anche su quello più reale dei contrasti relativi alle rispettive aree di influenza.
La crisi dei rapporti tra Cina e Unione Sovietica sanzionò il definitivo sganciamento della Cina dall'orbita russa. Questo fatto, che avrebbe posto seriamente in discussione il ruolo egemone dell'Urss nei confronti dei paesi interessati dai processi di decolonizzazione, propose la Cina maoista come il modello più attendibile sulla strada della conquista dell'indipendenza.
La Russia di Breznev 
La seconda fase della destalinizzazione, inaugurata con il XXII congresso del Pcus (novembre 1960), pose molti interrogativi sul futuro dell'Unione Sovietica. La svolta del 1956, seriamente messa in discussione dalla violenta repressione dei moti ungheresi, parve sospesa in una sorta di limbo, incerta fra un ulteriore rafforzamento dei processi riformisti e il semplice recupero dell'ortodossia marxista-leninista.
Più netta parve la linea seguita in politica estera, dove i dettami kruscioviani della coesistenza pacifica superarono anche l'ardua prova di forza sostenuta con gli Stati Uniti in occasione della crisi di Cuba. Tuttavia, gli insuccessi della politica di decentramento economico, le ricorrenti crisi agricole - che costrinsero il Cremlino all'importazione di una grande quantità di cereali americani fra il 1962 e il 1963 - e la rottura definitiva con la Cina a proposito della sospensione dei test nucleari portarono alle dimissioni di Krusciov (15 ottobre 1964).
Il suo successore, Leonid Breznev (1906-1982), se proseguì - ma in maniera più cauta (condanna dell'intervento americano in Viet Nam) - la linea kruscioviana di distensione internazionale, dall'altra si preoccupò di attuare una più efficace riforma dell'economia.
A tale scopo venne abbandonata la politica di decentramento, privilegiando nuovi investimenti e garantendo una maggiore autonomia alle imprese, senza peraltro abbandonare il rigido controllo centralizzato. L'era brezneviana coincise con un periodo di forte oscurantismo in campo culturale e sociale; tutte le manifestazioni di dissenso vennero prontamente represse (emblematico fu il caso del fisico nucleare Andrej Sacharov), mentre la vita intellettuale venne decisamente incanalata nei binari di una supina accondiscendenza alle restrizioni imposte dall'alto.
La primavera di Praga 
Nei riguardi dei paesi satelliti, Mosca si trovò a dover fronteggiare analoghi tentativi di riforme in campo economico (come accadde in Ungheria nel 1968, con l'adozione del "nuovo meccanismo economico"), che il più delle volte coincisero con l'esigenza, ormai ineluttabile, di riforme politiche. Il caso più eclatante e che parve riproporre i medesimi scenari ungheresi del 1956 fu rappresentato dalla "primavera di Praga".
In Cecoslovacchia, la nomina a segretario di partito di Alexander Dubcek (1968) si accompagnò alla volontà di cambiamento degli strati intellettuali e popolari del paese. Timorosa che il processo riformista di Dubcek (principio del "socialismo dal volto umano", aprile 1968) incrinasse il fronte del patto di Varsavia, Mosca decise l'intervento armato. Il 21 agosto 1968 l'ingresso a Praga dell'Armata Rossa terminava l'esperimento riformista cecoslovacco.
L'Urss e il comunismo asiatico 
Il processo di parziale distensione avviato dal trattato di cooperazione pacifica con la Germania occidentale (agosto 1970) e proseguito con le visite dei presidenti americani Nixon e Ford e gli accordi sulla limitazione della proliferazione nucleare subì un brusco arresto in seguito all'intervento militare in Afghanistan (dicembre 1979 - gennaio 1980). In politica interna il rafforzamento del potere personale di Breznev, che arrivò a riunire nelle proprie mani le cariche di capo del partito e di presidente della repubblica, coincise con la conferma della linea della repressione del dissenso.
La Cina, uscita dallo stato di isolamento internazionale con l'ammissione all'Onu (ottobre 1971), mise in atto, nella prima metà degli anni Settanta, un processo di riavvicinamento al Giappone (firma del trattato di pace, agosto 1978) e agli Stati Uniti (normalizzazione dei rapporti diplomatici, dicembre 1978).
La morte di Mao Zedong (9 settembre 1976) segnò un definitivo allontanamento dalla linea della rivoluzione culturale e l'abbandono delle strutture collettivistiche in campo economico a favore di una progressiva modernizzazione delle strutture produttive e di una parziale liberalizzazione del mercato.
Da Kennedy a ReaganKennedy e la "nuova frontiera" 
Negli Stati Uniti, proprio all'apertura degli anni Sessanta, una amministrazione democratica succedeva alla gestione repubblicana di Eisenhower (1953-1960) caratterizzata in senso profondamente anticomunista.
Il nuovo esecutivo era capeggiato da un giovane cattolico di origine irlandese, John Fitzgerald Kennedy (1960-1963), che già nel suo primo appello ufficiale al paese (discorso sullo stato dell'Unione, 29 gennaio 1961), pose l'accento sulla necessità di uno sforzo comune per l'abbattimento delle barriere sociali e razziali e per il superamento delle tensioni internazionali.
La politica kennedyana della "nuova frontiera" si ricollegava idealmente alle tradizioni del pionierismo americano e della corsa all'Ovest. Inoltre, essa si poneva come obiettivo primario il superamento delle forme di ingerenza nei paesi latino-americani, privilegiando nuovi rapporti di collaborazione che ne favorissero una reale evoluzione democratica.
L'attentato di Dallas 
Il processo di distensione dei rapporti internazionali avviato da Kennedy, superando anche momenti di estrema tensione (crisi di Cuba, 1961-1962), venne tuttavia bruscamente interrotto dall'attentato di cui rimase vittima a Dallas (22 novembre 1963), nel corso di una parata elettorale.
Il presunto assassino, Lee Oswald, fu ucciso in carcere il giorno dopo l'arresto. A dispetto dei dubbi e delle contestazioni sul rapporto finale, la commissione Warren, appositamente istruita, confermò che Oswald fu l'unico autore e ideatore dell'attentato. In realtà, Kennedy cadde vittima di un complotto conservatore, non meno preoccupato delle tendenze riformistiche del presidente che dell'appoggio fornito al movimento dei neri d'America.
Il riarmo e i programmi spaziali 
Anche a causa del breve lasso di tempo nel quale rimase a capo dell'amministrazione americana, Kennedy non riuscì a incidere in maniera duratura sui processi di distensione.
A dispetto della parziale apertura nei confronti dell'Urss (incontro di Vienna con Krusciov, 1961), egli non riuscì a modificare l'orientamento di fondo assunto dal suo paese a proposito della questione neocoloniale.
È un dato di fatto che nei due anni di presidenza Kennedy vennero concessi dal Congresso maggiori stanziamenti per i programmi spaziali e per i piani di riarmo (potenziamento dell'arsenale nucleare e convenzionale) e venne avanzata la proposta di una forza atomica multilaterale della Nato; non sorprende quindi come proprio sotto l'amministrazione Kennedy si innescò il processo che, nel giro di pochi mesi, avrebbe condotto alla guerra contro il Viet Nam.
La guerra in Viet Nam 
La situazione di questo paese, nell'aria asiatica sudorientale, ricordava quella della vicina Corea.
Resosi indipendente dal predominio francese, il Viet Nam era formalmente suddiviso in due parti - l'una, a nord, sottoposta a un governo comunista guidato da Ho Ci Minh e capitale Hanoi, l'altra, a sud, retta da un regime filoccidentale con capitale Saigon - ma vincolato dall'obbligo di indire entro il 1956 un referendum popolare per verificare l'assetto istituzionale definitivo.
A tale referendum i governanti di Saigon si erano opposti più volte, provocando la violenta reazione armata delle fazioni democratiche e dei comunisti (i "vietcong"). Costoro, appoggiandosi al governo di Hanoi, ingaggiarono una dura guerriglia per abbattere la dittatura di Ngo Dinh Diem, a sua volta appoggiato dagli Stati Uniti.
Questi ultimi, dopo l'invio di 10 000 "consulenti militari" e di aiuti finanziari (1962), rimasero sempre più invischiati nel conflitto che, dopo l'eliminazione del dittatore sudvietnamita (1963), si ampliò a dismisura.
La nomina a presidente di Lyndon Johnson (che venne riconfermato in carica nelle elezioni del 1964) coincise con il diretto intervento americano, provocato da un attacco nordvietnamita a navi statunitensi nel golfo del Tonchino. Il sacrificio enorme di vite umane e di risorse economiche e la drammatica brutalità con la quale gli Stati Uniti caratterizzarono il loro intervento provocarono una grande ondata di proteste nel paese e in tutto l'Occidente.
La resistenza dei vietcong 
L'enorme impegno bellico profuso dal governo americano non riuscì tuttavia ad avere ragione della resistenza dei vietcong e dei nordvietnamiti, sostenuti militarmente da russi e cinesi.
Al graduale disimpegno che venne annunciato dal nuovo presidente americano, il repubblicano Richard Nixon (settembre 1969), fece seguito la definitiva affermazione nordvietnamita (capitolazione del Viet Nam del Sud, 30 aprile 1975) e la riunificazione del paese sotto l'egida comunista (2 luglio 1976).
Anche il Laos e la Cambogia, coinvolti nel conflitto a partire dal biennio 1970-1971, videro la contemporanea affermazione della guerriglia comunista.
Grazie al lavoro del movimento laotiano Pathet Lao e di quello cambogiano dei "khmer rossi" (i guerriglieri comunisti che detennero il potere nel quinquennio dal 1975 al 1979) vennero successivamente insediate delle repubbliche popolari gravitanti nell'orbita di Mosca e di Pechino (1975).
Martin Luther King e la questione razziale 
Una delle piaghe che sconvolse l'America degli anni Sessanta fu senza dubbio quella della questione razziale.
Il problema, acuitosi enormemente a causa delle forti migrazioni interne - da sud a nord - della popolazione nera e della sua costrizione in enormi ghetti urbani, provocò scontri e tensioni crescenti (gravi sommosse avvennero nelle maggiori città americane fra il 1964 e il 1968). Se la militanza più radicale era organizzata attorno a gruppi quali "Black power" (Potere nero) o "Black muslims" (Musulmani neri), il movimento favorevole a una progressiva integrazione dei negri nella società americana, che pure ebbe alcuni riconoscimenti politici (sentenza della Corte Suprema sulla parità razziale nelle scuole, 1954, e approvazione del "voting rights act", o legge sui diritti di voto), trovò il suo massimo esponente nel pastore protestante Martin Luther King (1929-1968).
Impostando la protesta su basi moderate e facendo affidamento sulla forza persuasiva delle grandi manifestazioni popolari (come a Washington, nell'agosto 1963), Martin Luther King cercò anche un collegamento diretto con le forze democratiche e progressiste bianche. Tuttavia, come l'opera riformista di Kennedy, anche il processo di integrazione inaugurato dal leader negro subì una brusca interruzione.
Martin Luther King, insignito nel 1964 del premio Nobel per la pace, fu ucciso in un attentato a Memphis, nel 1968.
La presidenza Nixon 
Nel 1969 l'elezione di Richard Nixon  alla presidenza degli Stati Uniti non portò a significativi cambiamenti nella politica interna, continuando a prevalere una linea tesa a un  profondo risanamento della situazione economica. Diverso, invece, il discorso nell'ambito delle relazioni internazionali, dove gli Stati Uniti non solo si disimpegnarono definitivamente dalla gravosa guerra del Vietnam, ma trovarono anche il modo di attuare un riavvicinamento alla Cina di Mao (diplomazia del "ping-pong" e viaggio di Nixon a Pechino, febbraio 1972).
Il successo della politica estera americana, affidata all'abile diplomatico Henry Kissinger, fu uno dei fattori che consentirono la riconferma dell'amministrazione Nixon (elezioni del novembre 1972). La credibilità presidenziale venne tuttavia messa seriamente in discussione dallo scoppio dello scandalo Watergate (spionaggio illegale ai danni degli avversari politici) che, nel 1973, costrinse Nixon alle dimissioni per evitare l'incriminazione dinanzi alla Corte Suprema. Al sostituto Gerald Ford (1973-1977), l'era del quale fu contrassegnata da un sia pur lieve allentamento del clima di tensione con l'Unione Sovietica (dichiarazione congiunta di Vladivostok sull'intesa Salt, novembre 1974), successe il presidente democratico Jimmy Carter (1977-1981).
Da Carter a Reagan 
Impegnatosi in una vasta campagna in difesa dei diritti umani, Carter operò anche in direzione di una limitazione degli armamenti nucleari (accordo Salt 2, giugno 1979, poi non ratificato dal Congresso americano) e di una soluzione pacifica della contesa mediorientale (accordi israelo-egiziani di Camp David, settembre 1978).
Costretto a fronteggiare una difficile crisi economica sul finire del suo mandato, venne ritenuto, dall'elettorato americano, il principale responsabile dell'insuccesso della spedizione volta a liberare un gruppo di connazionali da sei mesi tenuti prigionieri in Iran (aprile 1980).
Le elezioni che si svolsero nel novembre 1980 segnarono così il ritorno alla Casa Bianca di un presidente conservatore, Ronald Reagan (1980-1988), apertamente favorevole a una totale liberalizzazione dell'economia e a un rafforzamento della potenza militare americana, tutto a scapito degli investimenti in campo socio-assistenziale.
Venti di novità: fine anni SessantaLa nascita del Mercato Comune 
La coscienza della perduta egemonia politica nel mondo non fece che accelerare il processo di integrazione economica dell'Europa. Furono soprattutto i paesi dell'occidente europeo (Belgio, Olanda, Italia, Lussemburgo, Francia e Germania Occidentale), già passati attraverso la creazione della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (Ceca, 1951), a dar vita alla Comunità Economica Europea (Cee) e all'Euratom (ente per lo sfruttamento pacifico dell'energia atomica), istituiti nel 1957.
Dopo il brusco rallentamento causato dal divieto francese all'ingresso della Gran Bretagna nella Cee (1963), il processo di integrazione venne riavviato con la creazione della Commissione Europea (l'organo governativo della Comunità, 1° luglio 1967). Nuove trattative per un allargamento della base comunitaria portarono all'adesione dell'Irlanda, della Danimarca e, con dieci anni di ritardo, dell'Inghilterra (Comunità dei nove, 1° gennaio 1973).
L'entrata in vigore del Sistema monetario europeo (Sme, 13 marzo 1979) e le prime elezioni del parlamento europeo (7 giugno) chiusero la prima fase dell'unione economica continentale.
Il movimento studentesco del maggio 1968 
Fra gli avvenimenti che caratterizzarono la fine degli anni Sessanta vi fu senz'altro il fenomeno della contestazione giovanile che, a partire dal maggio 1968, dilagò dalla Francia fino a coinvolgere tutti i paesi dell'area occidentale. Il movimento, identificato in seguito con il termine più generico di "sessantotto", si rifece a esempi di rivolta studentesca già emersi negli Stati Uniti all'inizio degli anni Sessanta e produsse effetti rilevanti sia dal punto di vista del costume sia dal punto di vista politico.
La richiesta di riforme che ne accompagnò la nascita, inizialmente limitata all'ambito scolastico, si estese a tutti i settori della vita socioculturale. Alla fine, pur sconfitto politicamente, il movimento studentesco riuscì a porre le basi per un effettivo rinnovamento della sinistra in tutta Europa.
La nuova missione universale della Chiesa 
Il clima della distensione e della coesistenza pacifica, per quanto a fasi intermittenti, produsse nel mondo numerose revisioni di atteggiamenti mentali, di posizioni politiche e di pregiudiziali ideologiche. Un segno evidente di mutamento venne anche dalla Chiesa cattolica, che abbandonò finalmente la pregiudiziale conservatrice e anticomunista che aveva caratterizzato il regno di Pio XII.
Essa pervenne, sotto il pontificato di Giovanni XXIII (Angelo Roncalli, 1958-1963), a una più larga e adeguata comprensione dei problemi del mondo contemporaneo, in particolare di quelli relativi alla pace, alla giustizia sociale e al sottosviluppo.
Oltre che in documenti ufficiali particolarmente significativi (come le encicliche 
Mater et magistra e Pacem in terris) l'ansia cattolica di rinnovamento si tradusse anche in atti concreti e, a loro modo, rivoluzionari. Tale fu, per esempio, la convocazione del Concilio Vaticano II (1962-1965), destinato a segnare, con parecchie riforme di ordine interno e liturgico-formali, una svolta importantissima nella storia più recente della Chiesa e del mondo cattolico.
L'opera di Giovanni XXIII venne in parte modificata dal suo successore, Paolo VI (Giovan Battista Montini, 1965-1978) il quale, conservandone intatte le propensioni ecumeniche, privilegiò l'interesse verso un dialogo con tutte le religioni e le chiese monoteiste.
Italia: anni SettantaDal centro-sinistra alla nascita del terrorismo 
In Italia i governi di centro-sinistra fronteggiarono enormi problemi, accentuati dalla ormai cronica disomogeneità tra Nord e Sud, dal sempre più profondo squilibrio tra città e campagna (a causa dei forti fenomeni migratori interni) e dal sensibile affievolimento della crescita economica.
Dopo la breve esperienza del gabinetto democristiano di Giovanni Leone (aprile 1963), i tre successivi governi di centro-sinistra guidati da Aldo Moro (dicembre 1963 - maggio 1968) si scontrarono con ulteriori ostacoli che ne misero in forse i già deboli piani di riforma.
Lo scandalo del Sifar (i servizi segreti dell'esercito), con i relativi progetti di destabilizzazione dello stato democratico (1966), le prime avvisaglie della contestazione studentesca (1966-1967) e la progressiva crescita elettorale del Pci (guidato da Luigi Longo), furono solo le prime tappe nella strada verso un periodo di violente tensioni e di scontri sociali.
I tentativi del monocolore democristiano Leone (giugno-dicembre 1968) e del successivo centro-sinistra Rumor (dicembre 1968 - luglio 1969), si scontrarono con la protesta montante nel paese che culminò in una stagione di violenti ascioperi e rivendicazioni sindacali (autunno caldo, 1969).
In un clima cupo, avvelenato dalle pressanti richieste conservatrici per un governo forte e dalla approvazione del pacchetto di garanzie per la popolazione germanofona del Trentino, l'Italia entrava nel lungo tunnel del terrorismo con il tragico attentato di Piazza Fontana, a Milano, che provocò 16 morti e decine di feriti (12 dicembre 1969).
Gli anni di piombo 
L'Italia visse, negli anni Settanta, il periodo più buio della sua storia unitaria.
La formula del centro-sinistra, riaffermatasi dopo la strage di piazza Fontana, non riuscì a bloccare ulteriori tentativi di destabilizzazione dell'ordine costituzionale (tentato golpe Borghese, dicembre 1970, strage di Brescia, maggio 1974, attentato del treno "Italicus", agosto 1974). La nascita di numerose organizzazioni paramilitari di destra (Ordine Nuovo) e di sinistra (Brigate rosse, Prima Linea) fu il preludio della lunga stagione del terrorismo, che culminò con il rapimento e l'uccisione del leader democristiano Aldo Moro da parte delle Br (16 marzo - 9 maggio 1978).
Le riforme e il compromesso storico 
Ciononostante, il paese riuscì ad attuare nel corso del decennio importanti riforme, quali l'approvazione dello statuto dei lavoratori (14 maggio 1970), l'attuazione del decentramento regionale già previsto dalla Costituzione (7 giugno 1970), la legge sul divorzio (1° dicembre 1970, ribadita dal referendum del maggio 1974), l'approvazione della legge 180 (abolizione dei manicomi) e di quella sulla legalizzazione dell'aborto (entrambe nel maggio 1978).
Dal punto di vista politico una novità fu la proposta di Enrico Berlinguer di un "compromesso storico" fra la Democrazia cristiana e il Partito comunista.
In campo economico l'Italia fronteggiò un periodo di depressione, acuito dalla crisi petrolifera internazionale, ma sul quale influirono anche i grandi processi di ristrutturazione dell'industria.
D'altro canto, venne sempre più affermandosi la classe della piccola e media impresa in aree che precedentemente erano sottosviluppate (il cosiddetto modello della "terza Italia").Europa: anni SettantaLa caduta dei regimi dittatoriali: la Grecia 
In Europa il clima di rinnovamento scaturito dalla contestazione studentesca e dalle lotte per uno svecchiamento degli apparati statali si diffuse presto ai paesi ancora soggetti a regimi autoritari.
La Grecia, dopo il colpo di stato che aveva portato al potere una giunta militare guidata dal colonnello Georgios Papadopoulos (21 aprile 1967), si reincamminò sulla strada del ripristino della legalità costituzionale con la destituzione della giunta e la sua sostituzione con il governo moderato presieduto da Konstantin Karamanlis (1974).
La caduta del "regime dei colonnelli" ebbe come conseguenza anche un riassetto istituzionale della Grecia, che si pronunciò a favore della repubblica.
Questi cambiamenti causarono, seppure indirettamente, l'umiliante sconfitta militare subita a Cipro, dove un colpo di stato delle destre sostenute da Atene - che aveva ottenuto l'allontanamento dell'arcivescovo Makarios, presidente della repubblica cipriota - venne contrastato vittoriosamente da truppe turche giunte in aiuto della minoranza turco-cipriota.
La fine del franchismo in Spagna 
Anche la Spagna si incamminò verso la democrazia intorno alla metà degli anni Settanta.
A partire dal 1969 il regime franchista aveva dovuto fare i conti sia con la recrudescenza del movimento armato indipendentista basco (Eta), sia con l'aumento della conflittualità sociale, riuscendo solo a fatica a contenerne la carica destabilizzante.
La morte del dittatore (20 novembre 1975) consegnò il potere nelle mani del successore designato, il giovane re Juan Carlos. Costui, disilludendo quanti avevano visto in lui il continuatore ideale del regime, attuò una immediata apertura alle forze democratiche e una liberalizzazione della vita sociale, consentendo la ricostituzione del Pce (Partito comunista di Spagna) e garantendo la libertà di associazione sindacale (1977). La netta affermazione dell'Unione del centro democratico di Adolfo Suárez, del Partito socialista operaio (Psoe) di Felipe Gonzáles e dei comunisti di Santiago Carrillo nelle prime elezioni libere dopo quasi un quarantennio di dittatura (15 giugno 1977) confermarono appieno la svolta democratica del paese.
La democratizzazione in Portogallo 
Il percorso di democratizzazione portoghese fu parzialmente diverso e maggiormente irto di difficoltà. Fu attuato grazie alle aspirazioni liberali della gran parte della popolazione ma anche in seguito ai contrasti sorti all'interno della giunta militare a proposito del destino coloniale del paese. Dimessosi Salazar (1968), il successivo governo di Marcelo Caetano veniva infatti rovesciato da un colpo di stato militare ("rivoluzione dei garofani", 25 aprile 1974) guidato dal colonnello Gonçalves e appoggiato dalle forze antifasciste.
Liquidato l'anacronistico impero coloniale (Angola e Mozambico riacquistarono l'indipendenza nel 1975), varato un radicale programma di nazionalizzazioni e approvata la nuova Costituzione, il paese si avviò sulla strada della normalizzazione democratica con le prime elezioni libere dai tempi dell'avvento della dittatura (aprile 1976).
La Germania di Willy Brandt 
Pur rimanendo vincolata alle decisioni di Washington, la politica europea fece registrare negli anni Settanta i primi timidi accenni di affermazione di una linea autonoma, caratterizzata da un maggiore interesse per i problemi del sottosviluppo e per la piena affermazione dei principi democratici.
In Germania il decennio fu caratterizzato dall'affermazione del Partito socialdemocratico (Spd) guidato da Willy Brandt (cancelliere dal 1969 al 1974). La Spd, che aveva abbandonato la pregiudiziale marxista nel congresso di Bad Godesberg (1959), si propose come la forza politica trainante non solo nel processo di sviluppo economico interno, ma anche nella riapertura del dialogo internazionale Est-Ovest.
Il paese si trovò ad affrontare il gruppo armato di sinistra extraparlamentare Rote Armee Fraktion (Raf) responsabile dell'assassinio del presidente degli industriali Schleyer, avvenuto nell'ottobre 1977.
Inghilterra e Francia 
L'Inghilterra, dal canto suo, affrontava il nuovo decennio divisa tra la nostalgia per la irreversibile perdita di prestigio a livello internazionale (alla quale aveva contribuito il progressivo disimpegno dall'impero coloniale) e il perseguimento di una politica europeista (ingresso nella Cee, 1° gennaio 1973).
I governi succedutisi al potere si trovarono a dover fronteggiare una forte conflittualità sociale interna l'accentuarsi della pesante crisi economica e la recrudescenza della tensione e della lotta indipendentista nelle sei contee dell'Ulster ("domenica di sangue" a Derry, 30 gennaio 1972).
Nonostante i primi successi segnati dalla politica economica del laburista Callaghan (1976-1979), le elezioni legislative del maggio 1979 segnarono il successo del partito conservatore di Margaret Thatcher, fautrice di una linea economica neoliberista.
In Francia l'uscita di scena di De Gaulle (1969) pose le premesse per una ripresa della vita democratica, sia pure sotto l'egida di governi conservatori.
Tuttavia la crisi economica, solo in parte fronteggiata con il ricorso all'interventismo statale, costituì una delle premesse per la forte ripresa della sinistra.L'Italia da Moro a Prodi
La criminalità organizzata nei primi anni Ottanta 
L'inizio degli anni Ottanta rappresenta per l'Italia un periodo di grave crisi, sotto il profilo economico e politico.
Ancora scosso dal sequestro e dall'omicidio di Aldo Moro avvenuto nel 1978, lo Stato si trova a dover fronteggiare il perdurare della pericolosa offensiva terroristica. Il 2 agosto 1980 una bomba esplosa nella sala d'aspetto della stazione di Bologna provoca una strage: i morti sono ottantacinque, duecento i feriti. Altre quindici persone muoiono il 23 dicembre 1984 per una nuova bomba fatta esplodere sul treno Italicus, in servizio da Napoli a Milano.
I responsabili di queste stragi, attribuite a movimenti eversivi di estrema destra, non verrano mai individuati, anche a causa dei numerosi e continui depistaggi messi in opera da alcune frange dei servizi segreti. Non meno pericoloso e destabilizzante è il terrorismo politico di estrema sinistra, che attraversa in questi anni la sua crisi finale: dopo l'omicidio dell'economista Ezio Tarantelli (27 marzo 1985), le Brigate Rosse soccombono, vinte dalla lunga lotta ingaggiata contro di loro dallo Stato, che si avvale dei sempre più numerosi "dissociati" (terroristi che, pur non rinnegando il loro passato, ammettono la sconfitta del loro movimento e decidono di collaborare con la giustizia).
Più pressante si fa anche l'attacco della mafia: nel 1982 cadono a Palermo Pio La Torre, segretario regionale del Partito comunista, e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, inviato come prefetto a Palermo dopo l'assassinio di La Torre senza avere però poteri di coordinamento della lotta alla mafia. È l'inizio di una grande offensiva delle organizzazioni mafiose, che sempre più tenderanno a sostituirsi allo Stato in vaste aree dell'Italia, e particolarmente in Sicilia.La mafiaL'organizzazione denominata Cosa Nostra ha radici profonde nella cultura e nella vita politica siciliana. Le prime forme di potere mafioso risalgono all'epoca borbonica e, più incisivamente, all'instaurazione dello stato italiano unitario (1860). Lo stato nazionale, infatti, appariva alle popolazioni del meridione d'Italia come un'entità del tutto estranea, incapace di risolvere i loro problemi.
Il solco venutosi a creare tra opinione pubblica e autorità statale venne gradualmente colmato dalle ricche famiglie locali di proprietari terrieri, che in pratica si sostituirono allo Stato nella gestione del potere e nel controllo dell'ordine pubblico. La mafia di oggi è l'erede dell'ottocentesca aristocrazia terriera, abilmente e opportunamente adattatasi alle grandi trasformazioni economiche e politiche avvenute nel corso del tempo. La mafia è diretta dalla cosiddetta "cupola", formata dai capi delle "famiglie" (o cosche). Lo scopo di questa associazione è l'arricchimento derivante dal controllo di attività illecite (contrabbando, droga, appalti truccati, riciclaggio di denaro sporco). 
Attraverso questi canali, Cosa nostra, spesso protetta da politici compiacenti, mira a conseguire il completo controllo economico della Sicilia, con ramificazioni in tutta Italia e anche all'estero. Tutti coloro che sono di ostacolo al raggiungimento di tale obiettivo vengono eliminati: imprenditori, giornalisti e cittadini comuni che denunciano soprusi, uomini politici che non si adeguano alle regole mafiose e, naturalmente, magistrati e rappresentanti dello Stato.
Interminabile è la lista delle personalità assassinate dalla mafia tra il 1979 e il 1992: il presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella, l'ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco e molti altri, fino alle orrende stragi di Capaci e di via D'Amelio (1992), dove hanno perso la vita i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, insieme agli agenti della loro scorta e alla moglie di Falcone. 
È grazie all'intenso lavoro di questi magistrati, da anni impegnati nella lotta alla mafia, che siamo arrivati a conoscere la capillare organizzazione di Cosa nostra e il suo pericoloso intreccio con la vita politica; ed è ancora grazie a loro che è stato possibile catturare boss mafiosi latitanti da decenni, come Totò Riina, Nitto Santapaola e Leoluca Bagarella.
Il secondo miracolo economico 
La grave crisi economica degli anni Settanta prosegue anche all'inizio del decennio successivo: il Pil (prodotto interno lordo) continua a essere negativo e l'inflazione, che nel 1980 era arrivata al 21,3%, tre anni dopo non è ancora scesa al di sotto del 15%.
A partire dal 1984, però, si verifica una netta ripresa economica, determinata sia da fattori esterni (ribasso del prezzo del petrolio, forte spinta in avanti dell'economia statunitense, nella cui orbita si trova quella italiana) sia da motivazioni interne: tra queste, una ritrovata disponibilità agli investimenti da parte delle aziende italiane e una minore conflittualità sociale, dovuta a un certo indebolimento del sindacato. Si incrina, infatti, l'unità e la rappresentatività di Cgil, Cisl e Uil, mentre nascono nuove organizzazioni sindacali autonome, come i Cobas, particolarmente attivi nel settore dei servizi pubblici.
In questa situazione, mentre trova nuovo impulso la grande industria attraverso fusioni societarie e massicce ristrutturazioni aziendali e lancio di nuovi prodotti, fiorisce soprattutto la piccola e media impresa, che contribuisce ad affermare nel mondo il cosiddetto "made in Italy" (cioè le manifatture italiane), principalmente nel settore dell'abbigliamento e dell'alta moda.
Cresce l'occupazione, particolarmente nel settore terziario (dei servizi), a scapito di quello primario (agricoltura). Si approfondisce nettamente, però, il divario tra nord e sud del paese: se le regioni centro-settentrionali raggiungono punte di espansione economica tra le più alte in Europa, in quelle meridionali la ripresa economica è molto lenta, se non addirittura assente.
Questo "boom" economico, inoltre, non cancella i tradizionali limiti dell'economia italiana: anzitutto l'aumento incontrollato del debito pubblico, che nel 1989 arriva a superare la ricchezza prodotta in Italia nello stesso anno; poi l'elevatissima evasione fiscale, favorita dalla crescita del lavoro "sommerso", cioè difficilmente individuabile, e dalla complessità del sistema fiscale italiano; infine l'eccessiva burocrazia dei servizi, che provoca difficoltà ai cittadini ma anche problemi alle aziende e, in generale, alla gestione dell'economia.
Gli anni del pentapartito e la nascita del Pds 
Dal punto di vista politico, gli anni Ottanta si caratterizzano per un susseguirsi di governi all'insegna di un'alleanza (più o meno litigiosa, a seconda dei momenti e delle circostanze) tra cinque partiti: Dc (Democrazia cristiana, partito di maggioranza relativa), Psi (Partito socialista italiano), Psdi (Partito socialdemocratico italiano), Pri (Partito repubblicano italiano) e Pli (Partito liberale italiano). La novità di maggior rilievo, nella sostanziale staticità del quadro politico, è che, per la prima volta dal dopoguerra, guidano il governo anche esponenti non appartenenti alla Democrazia cristiana, come il repubblicano Giovanni Spadolini (1981-1982) e il socialista Bettino Craxi (1983-1987).
La formula politica del pentapartito chiude in questo modo la stagione dei governi di "solidarietà nazionale" che, alla fine degli anni Settanta, avevano fatto entrare il Pci (Partito comunista italiano) nell'orbita di governo.
Gli anni Ottanta sanciscono anzi il progressivo isolamento del Partito comunista, penalizzato dalla stretta alleanza tra la Dc e il Psi di Bettino Craxi (eletto segretario del partito nel 1976). Dopo la morte di Enrico Berlinguer (giugno 1984), leader carismatico del Pci e artefice dell'allontanamento del partito dall'orbita sovietica, il Pci sembra anzi attraversare una fase di "sbandamento", che lo porta a subire una progressiva emorragia di consensi elettorali.
Il crollo dei regimi comunisti dell'Europa orientale, poi, impone necessariamente anche al Pci un'opera di revisione culturale e programmatica, che culmina nella svolta del 1989-1990, con la quale il nuovo segretario Achille Occhetto sancisce la fine del Pci e la nascita di un nuovo partito progressista e riformatore che si muove nel solco dell'Internazionale socialista: il Partito democratico della sinistra (Pds).
Alcuni esponenti del vecchio Pci formano invece un nuovo partito, Rifondazione comunista, che si propone di raccogliere in maniera più diretta l'eredità politica e culturale del comunismo.
La crisi dei partiti 
Tutti i numerosi partiti tradizionali della vita politica italiana attraversano in questo periodo una crisi profonda e sostanziale: è la crisi dell'intero sistema politico che ha retto l'Italia per quasi mezzo secolo, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale.
Ad avviare quella che molti hanno definito la "rivoluzione italiana" contribuiscono sia eventi esterni (la scomparsa della minaccia comunista, con il crollo dei regimi dell'Est europeo e dell'Unione Sovietica, che era stata una delle principali cause della lunga permanenza al potere della Dc), sia fattori interni, tra i quali la progressiva degenerazione morale e politica dei partiti stessi.
All'inizio degli anni Novanta viene alla luce in tutta la sua gravità un esteso e radicato sistema di corruzione che coinvolge, oltre a numerosi e importanti imprenditori privati e ad alti funzionari pubblici, esponenti di quasi tutti i partiti politici, colpevoli di essersi finanziati in maniera illecita o di aver accumulato ingenti ricchezze personali frutto di tangenti e altre pratiche illegali.
Nelle inchieste giudiziarie, avviate in particolare dal cosiddetto "pool Mani Pulite" della procura di Milano, sono ben presto implicati tutti i maggiori leader politici: Bettino Craxi, ex presidente del Consiglio e segretario del Psi (che per sfuggire alla giustizia troverà riparo nella sua villa tunisina di Hammamet), Arnaldo Forlani, Ciriaco De Mita, Giorgio La Malfa, Renato Altissimo, Gianni De Michelis, Francesco De Lorenzo e altri personaggi "eccellenti" della vita politica italiana.
Accanto a essi, le indagini della magistratura investono i vertici delle principali aziende pubbliche e private italiane (Fiat, Olivetti, Enimont, Fininvest, varie case farmaceutiche): tutti hanno contribuito a creare un gigantesco e capillare sistema di corruzione mirante all'arricchimento personale e al finanziamento illecito delle forze politiche.
A queste inchieste se ne affiancano altre, condotte soprattutto dalle procure di Napoli e Palermo, volte ad accertare presunte collusioni di alcuni illustri esponenti politici (Giulio Andreotti, Antonio Gava, Vincenzo Scotti, Paolo Cirino Pomicino ecc.) con la mafia e con la camorra. Particolarmente gravi sono le accuse mosse contro Andreotti, coinvolto in alcuni tra i più oscuri delitti di mafia, come gli omicidi del giornalista Pecorelli e del generale Dalla Chiesa.
Il mutamento del quadro politico 
A fare le spese del "ciclone Mani Pulite" sono anzitutto la Democrazia cristiana e il Partito socialista. Quest'ultimo, dopo il massiccio coinvolgimento nell'inchiesta del suo carismatico segretario Bettino Craxi, subisce un rapido declino che lo porta, in pratica, alla scomparsa dalla scena politica.
La Democrazia cristiana, invece, intraprende un profondo processo di rinnovamento che sfocia, nel gennaio 1994, nella trasformazione del partito in una nuova formazione politica: il Partito popolare italiano, che si richiama alle radici più genuinamente cattoliche e popolari del movimento originariamente fondato da don Luigi Sturzo nel 1919 e del quale la Dc aveva inteso raccogliere l'eredità nel secondo dopoguerra.
Un gruppo di ex parlamentari democristiani, però, essendo in netto disaccordo con la linea politica del nuovo partito, decide di staccarsi e di dar vita al Centro cristiano democratico.
Un anno dopo la sua creazione, tuttavia, il Partito popolare deve affrontare un nuovo, grave problema: le profonde divergenze createsi tra la segreteria politica e la direzione del partito provocheranno, nella primavera del 1995, la spaccatura del Ppi in due formazioni politiche, che sceglieranno programmi e alleanze politiche contrapposte.
Al declino dei partiti tradizionali corrisponde l'ascesa di movimenti nuovi attorno ai quali si raccoglie con sempre maggiore evidenza "l'ansia di rinnovamento del popolo italiano".
Tra questi movimenti, quello che con più forza si pone come elemento di rottura rispetto al passato è la Lega Nord. Nata nel 1982 come movimento autonomista ostile a quello che chiama il "parassitismo" delle regioni meridionali e alla politica accentratrice di Roma capitale, la Lega lombarda, divenuta poi Lega Nord e guidata dal carismatico segretario Umberto Bossi, va in seguito progressivamente attenuando i toni della sua campagna antimeridionalistica e, forte di un crescente consenso elettorale, arriva a proporsi come forza di governo mirante alla creazione di un vero e proprio stato federale.
L'altro movimento che si affaccia prepotentemente sulla scena politica a metà degli anni Novanta è Forza Italia, "creatura" politica dell'imprenditore televisivo Silvio Berlusconi: si tratta di una forza politica di centro-destra, che, insieme al Centro cristiano democratico e ad Alleanza nazionale (la nuova formazione di destra nata dalle ceneri del vecchio Movimento sociale italiano), dà vita al cosiddetto Polo delle Libertà.
Del Polo fa parte, in un primo tempo, anche la Lega nord, ma ben presto le divergenze tra Berlusconi e Bossi divengono tali da provocare l'uscita della Lega dalla coalizione di centro-destra.
L'emergenza economica: i governi Amato e Ciampi 
A partire dal 1991-1992 tutto il mondo occidentale attraversa una fase di grave recessione economica. In Italia, dove da tempo il debito pubblico ha raggiunto cifre da capogiro, l'emergenza economica è particolarmente pressante ed è inoltre complicata da una crisi valutaria senza precedenti: la lira italiana, colpita da una pesante speculazione, perde progressivamente terreno di fronte a tutte le principali valute estere.
I governi che si susseguono in questo periodo - prima quello del socialista Giuliano Amato (1992-1993) e poi quello dell'ex governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio Ciampi (1993-1994) - devono quindi anzitutto fronteggiare la grave crisi economica, che, tra l'altro, ha fatto salire il tasso di disoccupazione a livelli mai raggiunti in precedenza.
Nel luglio 1992 viene abolito il meccanismo della scala mobile, che per molti anni aveva garantito l'equiparazione dei salari al tasso di inflazione.
Nel settembre dello stesso anno la lira italiana esce dal Sistema monetario europeo, anche se la speculazione nei confronti della nostra moneta si protrarrà ancora per anni. I governi perseguono una politica di contenimento della spesa pubblica e di aumento delle entrate, attraverso una maggiore pressione fiscale e la privatizzazione di alcune aziende pubbliche. I primi segni di ripresa economica si faranno sentire solo verso la fine del 1994 e l'inizio del 1995, ma saranno accompagnati da una certa ripresa dell'inflazione.
Le elezioni del 1994 e il governo Berlusconi 
Il 27 e 28 marzo 1994 gli italiani vengono chiamati alle urne anticipatamente per rinnovare il Parlamento. Si tratta della prime elezioni politiche dopo l'approvazione (agosto 1993) della nuova legge elettorale che sostituisce il sistema proporzionale puro, in vigore fin dal dopoguerra, con un sistema misto, maggioritario per il 75% e proporzionale per il restante 25%.
Nelle intenzioni dei suoi promotori tale sistema elettorale dovrebbe favorire la creazione di due schieramenti politici contrapposti, arginando in questo modo l'eccessiva frammentazione del quadro politico italiano in una congerie di partiti anche piccoli o piccolissimi. In realtà, così concepita, la riforma elettorale, frutto di un compromesso tra i fautori del sistema maggioritario puro e i nostalgici del proporzionale, non darà i risultati sperati e il panorama politico italiano continuerà a essere quanto mai composito e variegato.
Le elezioni politiche del marzo 1994 sanciscono in maniera chiara la vittoria del Polo delle Libertà, la coalizione di centro-destra guidata da Silvio Berlusconi, che diventa presidente del consiglio l'11 maggio 1994.
La vita del neonato esecutivo, tuttavia, appare subito molto difficile, soprattutto a causa della scarsa coesione interna alla maggioranza di governo. Le divergenze tra la Lega di Bossi e il presidente del consiglio si fanno via via più profonde e i ministri leghisti, che occupano importanti dicasteri come quelli degli interni, finanze e bilancio, si trovano in una posizione sempre più scomoda, in bilico tra la fedeltà al governo e quella al segretario del loro partito.
Pesa inoltre su Berlusconi il nodo del conflitto di interessi tra il suo ruolo di "premier" e quello di imprenditore proprietario delle tre reti televisive della Fininvest. Ma il vero colpo di grazia al già traballante governo Berlusconi è dato dall'avviso di garanzia che gli viene notificato dalla procura di Milano il 21 novembre 1994: l'accusa è di corruzione in relazione a presunte tangenti pagate alla Guardia di finanza per evitare controlli fiscali su alcune società del gruppo di cui Berlusconi è presidente. Tre mozioni di sfiducia presentate da Pds, Rifondazione comunista, Ppi e Lega nord costringono Berlusconi a rassegnare le dimissioni il 22 dicembre 1994.
Lamberto Dini e il "governo dei tecnici" 
Dopo tre lunghe settimane di acceso dibattito politico e arroventate polemiche, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro sceglie la via del "governo dei tecnici" e affida l'incarico di formare il nuovo governo a Lamberto Dini, già direttore generale della Banca d'Italia e ministro del tesoro nel precedente governo Berlusconi.
Dini si propone di dare vita a un governo cosiddetto "di tregua": vale a dire un governo non politico bensì tecnico, formato da ministri non parlamentari, scelti esclusivamente in base alla loro competenza ed esperienza professionale nelle singole discipline.
Approntata la lista dei ministri, Dini si presenta alle Camere il 1° febbraio 1995 e, nonostante le speranze di dotare il suo governo di una larga maggioranza parlamentare, ottiene un "via libera" di stretta misura, grazie unicamente ai partiti di centro-sinistra.
Il nuovo premier si trova anzitutto a dover affrontare la grave emergenza economica e occupazionale, complicata da una delle crisi valutarie più acute degli ultimi decenni: a causa della disastrosa situazione del debito pubblico e della sfiducia degli investitori esteri nelle possibilità di riscossa della nostra economia, la lira italiana ha subito un vero e proprio tracollo nei confronti di tutte le monete estere e soprattutto del solido marco tedesco.
Per restituire credibilità all'Italia e placare le forti speculazioni che si abbattono sulla nostra moneta, Dini procede a una rigorosa manovra finanziaria volta ad avviare il risanamento dei conti pubblici; egli riesce inoltre a portare a termine quella riforma del sistema previdenziale che si invocava da più di vent'anni e che era ormai divenuta indispensabile per evitare il collasso finanziario dell'Inps (Istituto nazionale della previdenza sociale).
Lentamente la bufera che aveva investito i mercati valutari si attenua e la lira, pur tra alti e bassi, si assesta su quotazioni accettabili, mentre la produzione industriale attraversa una fase di grande espansione e i bilanci di molte aziende tornano in attivo.
Malgrado una leggera ripresa dell'inflazione e il perdurare di un'evasione fiscale su larga scala, il "governo dei tecnici" sembra dunque aver riportato un po' di ottimismo nell'economia italiana.
Dal governo Dini al governo Prodi 
L'11 giugno 1995 i cittadini italiani sono chiamati alle urne per pronunciarsi su dodici quesiti referendari. Tre riguardano le concessioni e la raccolta pubblicitaria per le reti televisive: il problema concerne soprattutto le reti commerciali, che sulla pubblicità fondano la loro stessa sopravvivenza, e quindi riveste un'importanza fondamentale per la Fininvest di Silvio Berlusconi.
La maggioranza della popolazione voterà "no" all'abrogazione delle leggi vigenti: Berlusconi può quindi registrare una vittoria che è insieme economica e politica. L'estate seguente, sulla scia dell'esito referendario e di fronte all'esigenza sempre più impellente di garantire al paese un governo stabile e capace di "portare l'Italia in Europa", si fanno da più parti pressanti richieste di un ulteriore scioglimento anticipato delle Camere. L'eventualità di un nuovo ricorso alle urne rimette in gioco gli equilibri politici soprattutto nell'area delle forze di centro-sinistra, che fin dall'autunno 1995 danno vita alla coalizione elettorale dell'Ulivo, capeggiata dal popolare Romano Prodi e alla quale aderisce anche Lamberto Dini.
Le elezioni politiche del 21 aprile 1996 assegnano la vittoria all'Ulivo e portano alla formazione, un mese più tardi, del primo governo a maggioranza di sinistra dell'Italia repubblicana, presieduto dallo stesso Prodi.
Tra i molti problemi che il nuovo governo si trova ad affrontare, dalla mobilitazione della Lega per la secessione dell'Italia centrosettentrionale (Padania) dal resto del paese (agosto-settembre) alla questione delle riforme istituzionali, quello più spinoso riguarda l'adesione dell'Italia alla moneta unica europea, obiettivo in parte avvicinato dal rientro della lira nello Sme (novembre 1996), ma che comporta una manovra finanziaria di vaste dimensioni (62 500 miliardi di lire).
Europa: anni OttantaL'era di Margaret Thatcher in Gran Bretagna 
Le elezioni politiche del 1979 affidano, dopo cinque anni di leadership laburista, la guida del governo britannico a Margaret Thatcher, capo del Partito conservatore. Anche la vittoria elettorale della Thatcher, come quella di Reagan negli Stati Uniti, risponde anzitutto a un'esigenza di riscossa dell'opinione pubblica inglese, scoraggiata da una pesante crisi economica e di prestigio, oltre che da crescenti tensioni sociali.
Questa donna energica e volitiva, poco incline ai compromessi, sembra appagare l'esigenza di rinnovamento, di ordine e di richiamo ai valori della tradizione che serpeggia nella popolazione e, facendo leva su questi sentimenti, saprà guidare la Gran Bretagna per 11 anni, ottenendo l'investitura elettorale per ben tre volte consecutive (1979, 1983 e 1987) e superando in questo senso perfino Winston Churchill.
Il suo governo pratica fin dall'inizio una politica di rigore economico e di austerità caratterizzata da una forte limitazione della spesa pubblica, specie  nei settori della sanità e dell'istruzione, e dalla privatizzazione di gran parte dell'industria di Stato.
Come negli Usa, anche in Gran Bretagna la politica economica assume un'impostazione decisamente liberista, che tende a privilegiare l'iniziativa individuale e a proteggere i ceti imprenditoriali affinché producano ricchezza e, di conseguenza, occupazione.
La resistenza dei sindacati a questa sua linea viene poi fiaccata attraverso duri scontri e una legislazione restrittiva dell'esercizio dello sciopero.
A lungo andare, però, il malessere sociale causato dal forte ridimensionamento dello stato sociale, dalla crescente piaga della disoccupazione e da una pressione fiscale che tendeva a penalizzare maggiormente i lavoratori dipendenti piuttosto che le imprese, finiscono per determinare un aperto contrasto tra la Thatcher e i dirigenti del suo stesso partito, costringendo il premier alle dimissioni (novembre 1990).
La politica estera della Thatcher 
Pur dichiarandosi sostenitrice di una "cultura europea", la Thatcher assume un atteggiamento di estrema cautela di fronte al progetto di unificazione dell'Europa. Il suo lungo braccio di ferro con gli altri paesi della Cee riesce ad assicurare alla Gran Bretagna condizioni più vantaggiose di partnership, ma non ottiene l'auspicato effetto di arrestare il processo di integrazione europea; anzi, da questo punto di vista la Thatcher diviene, nella seconda metà degli anni Ottanta, un alleato decisamente scomodo per i partner europei, e questo sarà uno dei motivi del contrasto che la opporrà allo staff dirigente del partito conservatore.
Sul problema dell'Ulster la 
lady di ferro mantiene un atteggiamento rigido e intransigente che finisce per provocare un'ulteriore radicalizzazione del conflitto e un'ondata di gravi e ripetuti attentati terroristici da parte dell'Ira (l'Esercito repubblicano irlandese).
La guerra delle Falkland 
Nella primavera del 1982 l'Inghilterra si trova poi improvvisamente a dover affrontare la questione delle isole Falkland-Malvinas, un arcipelago al largo della costa argentina sul quale il governo di Buenos Aires rivendica da sempre la sovranità, considerando l'appartenenza delle isole alla Gran Bretagna come un retaggio del periodo coloniale. Nell'aprile 1982 le forze armate argentine invadono l'arcipelago (che conta circa 1800 abitanti) e ne dichiarano unilateralmente l'annessione all'Argentina. Per il generale Leopoldo Galtieri, capo della giunta militare al potere a Buenos Aires, si tratta di un diversivo che dovrebbe servire soprattutto a distrarre l'opinione pubblica argentina dai gravi problemi politici ed economici suscitando un'ondata di nazionalismo popolare. La Gran Bretagna non esita a raccogliere la sfida e, dopo una serie di scontri duri e sanguinosi, riconquista la sovranità sulle isole (giugno 1982).
L'episodio determinerà la caduta della giunta di Galtieri e il passaggio dell'Argentina a  un regime democratico.
La Germania di Kohl 
Anche in Francia e in Germania Federale i primi anni Ottanta vedono importanti avvicendamenti al vertice, sebbene di segno politicamente diverso.
In Germania si afferma la leadership di Helmut Kohl, che diventa cancelliere nel 1982 in seguito alla rottura tra socialdemocratici e liberali e all'alleanza di questi ultimi con i democristiani. Kohl avvia subito un programma neoliberista che mira a tenere sotto controllo la spesa pubblica pur senza capovolgere completamente la politica dello 
stato sociale che aveva caratterizzato i governi di Willy Brandt e Helmut Schmidt nel decennio precedente.
La Francia di Mitterrand 
In decisa controtendenza è invece la Francia della prima metà degli anni Ottanta. Qui, nel 1981, diviene presidente della Repubblica il socialista François Mitterrand, espressione di un'alleanza tra il Partito socialista e quello comunista di Georges Marchais.
Il nuovo governo di sinistra intraprende una linea politica ed economica pressoché antitetica rispetto al reaganismo che in questo periodo rappresenta quasi la regola per il mondo occidentale: vengono attuate numerose nazionalizzazioni di banche e industrie, abbassati i tassi di interesse e innalzati i salari, ridotto l'orario lavorativo e fissato un limite più basso all'età pensionabile.
Ne risulta una crescita economica e occupazionale, accompagnata però da un forte aumento del debito pubblico e da una svalutazione della moneta francese, il franco. Per risolvere quest'ultimo nodo, considerato essenziale per una reale stabilità economica, Mitterrand è dunque costretto a mutare decisamente rotta e ad avviare, a partire dal 1984, una politica di rigore fondata su tagli consistenti alla spesa pubblica e sul contenimento dei salari. Questa svolta provoca l'uscita dal governo del partito comunista, che da questo momento inizia la sua parabola discendente.
Nuove tensioni nel mondoL'intervento sovietico in Afghanistan  
Se gli anni Settanta avevano rappresentato, nel complesso, un momento di relativa distensione tra Usa e Urss, grazie ad alcuni accordi commerciali e militari e all'apertura politica dimostrata nei confronti dell'Unione Sovietica dalla Germania di Willy Brandt, gli anni Ottanta si aprono all'insegna di una nuova tensione bipolare, caratterizzata dalla corsa agli armamenti e dallo scontro ideologico e propagandistico.
In questi anni si formano i nuovi governi conservatori in Gran Bretagna, guidati da Margaret Thatcher, e soprattutto negli Stati Uniti, con i due mandati quadriennali consecutivi del presidente repubblicano Ronald Reagan. E sono anche gli anni nei quali nel blocco sovietico si manifestano le prime crepe.
Nel dicembre 1979 l'Armata Rossa invade il vicino Afghanistan, con lo scopo di abbattere con la forza delle armi il governo comunista di Afizullah Amin (che muore durante l'operazione), sostituendolo con un governo-fantoccio dipendente direttamente da Mosca, capeggiato da Babrak Karmal.
I vari governi che si erano succeduti a Kabul (capitale dell'Afghanistan) a partire dal colpo di stato comunista del 1978 non erano infatti riusciti a stroncare la resistenza del movimento islamico, che, col favore dell'opinione pubblica, minacciava di strappare l'Afghanistan dall'orbita sovietica.
Tuttavia, quella che nelle intenzioni del Cremlino avrebbe dovuto configurarsi come una rapida e pressoché indolore operazione politica, si rivela quasi subito una sorta di 
boomerang: da un lato infatti si scontra con l'agguerrita resistenza della popolazione afghana che si trasforma in un'instancabile guerriglia contro le truppe di occupazione, dall'altro finisce per attirare contro l'Unione Sovietica le ire di un Occidente dominato ormai  dalla politica rigida e intransigente del presidente statunitense Reagan e dalla sua alleata europea, la "lady di ferro" inglese, Margaret Thatcher.
La Polonia e Solidarnosc 
L'altra spina nel fianco dell'Unione Sovietica dei primi anni Ottanta è rappresentata dalla Polonia, un paese per certi versi anomalo rispetto al blocco dell'Europa orientale, soprattutto a partire dal 1978, quando l'elezione di un papa polacco, Karol Wojtyla, offriva alla Chiesa di Polonia una nuova forza, che avrebbe potuto dimostrarsi utile anche da un punto di vista politico.
Nell'estate del 1979, gli operai delle miniere di Danzica, polmone economico della nazione, danno il via a un lungo sciopero che ben presto assume la forma di una vera e propria sfida al regime; la protesta si diffonde rapidamente in tutto il paese, coordinata dal sindacato libero Solidarnosc e dal suo leader, Lech Walesa.
Il regime in un primo tempo adotta un atteggiamento conciliante e "morbido", riconoscendo il sindacato:  la rivolta, tuttavia, non si placa e, allo scopo di riportare l'ordine e forse anche di scongiurare un intervento armato sovietico, il partito mette in atto, nel dicembre 1981, un'operazione repressiva, proclamando lo stato d'assedio e insediando un Consiglio militare di salvezza nazionale alla cui presidenza viene posto il generale Jaruzelski.
Viene imposto il coprifuoco, la censura e il blocco delle comunicazioni con l'estero. Il sindacato Solidarnosc viene soppresso e tutti i suoi principali esponenti, compreso Lech Walesa, finiscono in prigione.
I provvedimenti eccezionali vengono revocati alla fine dell'anno, ed è a questo punto che entra in gioco il ruolo "politico" della Chiesa cattolica, che, attraverso il primate monsignor Glemp, ha assunto in numerose circostanze il ruolo di interlocutore di Jaruzelski e di polo di aggregazione dell'opposizione al regime.
Proprio per questo suo ruolo la Chiesa cattolica paga un prezzo molto alto: nell'ottobre 1984 padre Jerzy Popieluzko, un sacerdote molto vicino a Solidarnosc, viene rapito, torturato e ucciso da alcuni funzionari dei servizi segreti, che, all'insaputa di Jaruzelski, tentano in questo modo di suscitare una rivolta popolare per costringere il generale a ripristinare lo stato di guerra.
L'America Latina: il ritorno alla democrazia 
Gli anni Ottanta si aprono all'insegna dell'instabilità del continente latino-americano, sottoposto, nel suo complesso, al travaglio di una sanguinosa lotta politica tra le dittature militari insediatesi negli anni Sessanta e Settanta (e sostenute più o meno direttamente dagli Stati Uniti), e l'opposizione clandestina. La pesante crisi economica che attanaglia gli stati latino-americani scava un solco sempre più profondo tra l'opinione pubblica e i governi: la resistenza popolare minaccia sempre più da vicino la sopravvivenza stessa delle giunte militari, e queste reagiscono con una violenta politica repressiva, che non esita a ricorrere al sequestro e all'eliminazione fisica dei dissidenti.
In Argentina, solo nel 1983, all'avvento di un nuovo regime democratico, viene alla luce in tutta la sua gravità ed evidenza il fenomeno dei cosiddetti 
desaparecidos (scomparsi): migliaia di individui fatti "sparire" e poi barbaramente uccisi dalla giunta militare per la loro opposizione al regime.
Gradualmente, però, quasi tutti gli stati del Sudamerica intraprendono negli anni Ottanta la difficile strada verso la democrazia e, a una a una, le dittature lasciano il posto a governi democraticamente eletti: è il caso di Brasile, Perù, Bolivia, Guatemala, Uruguay, Ecuador, Argentina e, da ultimo, anche del Cile, che nel 1990 riesce finalmente a liberarsi della dittatura del generale Pinochet iniziata 15 anni prima.
Tale evoluzione politica è tuttavia alquanto fragile, sia perché non sempre si accompagna a un effettivo ricambio della classe dirigente, sia per il permanere degli enormi problemi economici e sociali legati al sottosviluppo. Questi paesi sono infatti caratterizzati da un elevato grado di dipendenza economica, da un alto tasso di inflazione e da tensioni sociali dovute soprattutto a povertà, sovrappopolamento, diseguaglianze sociali e criminalità.
Il tratto distintivo dell'economia di tutti questi Stati è poi l'enorme debito estero lasciato in eredità dai regimi dittatoriali, che vi erano ricorsi per sostenere le spese militari e per agevolare il processo di industrializzazione.
L'India verso lo sviluppo 
Nell'ottobre 1984 muore in un attentato Indira Gandhi, la grande statista indiana che, proseguendo la politica di suo padre Nehru, stava cercando di strappare l'India alla piaga del sottosviluppo. Grazie a una profonda rivoluzione agricola fondata su un completo rinnovamento delle tecniche, la Gandhi era riuscita a portare l'India all'autosufficienza alimentare e aveva anche avviato un consistente processo di industrializzazione.
Tuttavia ciò non era bastato a risolvere definitivamente il grave problema della fame, dovuto anche a un fortissimo incremento demografico: circa metà della popolazione indiana vive ancora oggi sotto la soglia di povertà, con strutture sanitarie carenti e un altissimo grado di analfabetismo. A uccidere Indira Gandhi è una sua guardia del corpo di nazionalità sikh (una minoranza etnica separatista contro la quale la Gandhi ha sempre mantenuto un atteggiamento fortemente repressivo). Le succede suo figlio Rajiv Gandhi, che proseguirà sulla stessa strada finché nel 1991 non cadrà anch'egli vittima di un attentato.
Nuovi conflitti in AfricaLa minaccia dell'integralismo islamico 
A partire dall'avvento del regime khomeinista in Iran, in tutto il mondo arabo si assiste a una progressiva crescita dei movimenti islamici.
Questi tendono a proporsi sempre più come centri di mobilitazione politica e a sostituire con la loro ideologia il tradizionale nazionalismo arabo, considerato dalle frange più radicali un retaggio dell'epoca coloniale.
I movimenti oltranzisti islamici bandiscono una vera e propria guerra santa (
jihad) volta alla diffusione dell'islàm nel mondo come dottrina non soltanto religiosa ma anche politica.
Tra gli stati più interessati dal radicalismo islamico vi è l'Egitto, retto dal moderato Hosni Mubarak. In questo paese i gli attentati compiuti dai militanti islamici contro forze dell'ordine e turisti stranieri costringono le autorità a imporre lo stato d'assedio in vaste zone del paese, e lo stesso Mubarak subisce, nel giugno 1995, un attentato dal quale esce miracolosamente illeso.
La situazione in Algeria 
In Algeria l'integralismo islamico ha scatenato una vera e propria campagna di terrore. Il paese è retto fin dal 1962 dal Fronte di liberazione nazionale, protagonista della guerra di indipendenza dalla Francia e unico partito ammesso dalla Costituzione.
Nel 1989 il regime avvia un processo di transizione verso il pluralismo e nel dicembre 1991 sono indette libere elezioni politiche. Al termine del primo turno elettorale risulta già chiaramente evidente la schiacciante vittoria del Fronte islamico di salvezza (Fis); tuttavia, per evitare la definitiva assunzione del potere da parte di questo movimento fondamentalista, il governo algerino decide di annullare il secondo turno delle elezioni, mettendo fuori legge il Fis e arrestando gran parte dei suoi dirigenti.
Questo "golpe bianco" però, lungi dall'allontanare il rischio di un'espansione islamica nel paese, determina la radicalizzazione della lotta politica e l'instaurarsi di uno stato di terrore.
Guerra e terrore 
Gli integralisti islamici, defraudati di una vittoria politica ormai sicura, reagiscono con una violenta e sanguinosa guerra contro il governo e contro tutti gli stranieri, sia turisti sia residenti nel paese, accusati di fiancheggiare il regime e favorirne la sopravvivenza. Migliaia di cittadini stranieri vengono uccisi (tra essi sette marinai italiani sgozzati nel sonno nel luglio 1994); ma vengono colpiti anche intellettuali e uomini di cultura, colpevoli di diffondere un'ideologia diversa dall'islàm.
Il governo, da parte sua, scatena una violenta controffensiva nei confronti dei  principali centri dell'integralismo islamico nel paese. Il 31 gennaio 1994, con la nomina a presidente dell'Algeria del generale Liamine Zéroual, diviene ufficiale la presa diretta del potere da parte delle forze armate.
Nel gennaio 1995, quando otto partiti dell'opposizione si incontrano a Roma per mettere a punto una possibile base di intesa, le vittime di questa guerra sono già 40 000. Gli accordi di Roma, accettati anche dal Fis, prevedono un'alternanza democratica nella gestione del potere e la costituzione di un governo di transizione per la ripresa del processo elettorale interrotto nel 1992.
Le frange più oltranziste del Fronte islamico di salvezza si oppongono però a ogni trattativa e così la violenza prosegue senza esclusione di colpi.
Non sono soltanto i pochi stranieri rimasti in Algeria a vivere nel terrore di rappresaglie, ma tutti i professionisti, gli operatori culturali, gli insegnanti, i giornalisti, tutti coloro, insomma, che non contribuiscono a divulgare il "verbo" dell'integralismo islamico: la paura è ormai diventata parte integrante della loro vita quotidiana.
A metà del 1995 si diffondono voci su presunte trattative in corso, finalmente, tra il governo e il Fis, in vista di una progressiva normalizzazione della vita politica ed economica di un paese ormai sull'orlo del baratro.
L'indipendenza dell'Eritrea 
Il 1993 vede la nascita di un nuovo stato nel Corno d'Africa: è l'Eritrea, impegnata da più di trent'anni in una guerra d'indipendenza dall'Etiopia.
Nel 1991 dopo la caduta, in Etiopia, del regime comunista di Menghistu Hailé Mariam, che aveva rovesciato con un colpo di stato il 
negus Hailè Selassiè nel 1974, l'Eritrea aveva già proclamato di fatto l'indipendenza dall'Etiopia, ottenendo anche un riconoscimento internazionale. Per dare però una base giuridica al nuovo stato, il 23-25 aprile 1993 si tiene un referendum popolare, che approva quasi all'unanimità (99%) l'indipendenza del paese.
Permangono tuttavia numerose incognite sul futuro politico ed economico di questo nuovo stato in un'area "calda" come il Corno d'Africa.
Il finanziamento internazionale per la ricostruzione del paese non è stato in grado di garantire alle autorità il livello sperato; il ritorno dei profughi, inoltre, ha aggravato la disoccupazione e creato forti tensioni sociali.
Quanto alla politica estera, l'Eritrea si sforza di intrattenere buone relazioni con la vicina Etiopia e con il Sudan, mentre, al contrario, i rapporti con il mondo arabo sembrano essersi fortemente incrinati a causa della cooperazione avviata con Israele in tema di sicurezza e di sviluppo dell'agricoltura.
La guerra civile in Somalia 
La repubblica somala, nata nel 1960, aveva avuto fin dall'inizio una vita difficile e quasi subito si era trasformata in un regime dittatoriale retto dal generale Siad Barre. Nel 1990 i movimenti di guerriglieri antigovernativi, appoggiati dall'Etiopia, riescono a sconfiggere Barre, che fugge all'estero.
Ben presto si crea però una frattura all'interno del movimento di liberazione tra Ali Mahdi, nominato presidente 
ad interim, e Mohamed Farah Aidid, capo di una fazione rivale, che cerca di usurpare il potere. Da questo momento la Somalia, già economicamente molto arretrata e afflitta da frequenti carestie, viene travolta da una sanguinosa guerra civile in cui si affrontano non soltanto le due fazioni opposte, ma diversi partiti, bande ed eserciti rivali, che spadroneggiano nella capitale Mogadiscio e in tutto il paese, mentre il governo centrale viene di fatto esautorato ed è ridotto a una pura ombra.
Le condizioni della popolazione si fanno più drammatiche, poiché le bande rivali impediscono l'afflusso degli aiuti umanitari inviati dalle Nazioni unite.
L'operazione "Restore Hope" 
Nel gennaio 1993 il presidente americano George Bush, sotto l'egida dell'Onu, lancia l'operazione "Restore Hope" (Restituire la speranza), cioè l'invio di Caschi blu con il compito di consentire l'approvigionamento della popolazione. La missione di pace, tuttavia, fallisce sia per le difficoltà legate alla violenza della guerra civile, sia per contrasti ai vertici della forza multinazionale. Nel febbraio 1995 anche gli ultimi 
marinesamericani lasciano la Somalia.
Il paese è ormai in mano alle varie bande di miliziani che si aggirano seminando terrore e morte a bordo di speciali camionette chiamate in gergo "taniche". L'Occidente ha ammesso la propria sconfitta e, anzi, ogni stato ha consigliato il rimpatrio dei propri cittadini presenti nel territorio della Somalia.
Alto, infatti, è il tributo di sangue pagato dagli stranieri, e in particolare dai giornalisti recatisi per lavoro sul suolo somalo: ricordiamo, per l'Italia, la giornalista Ilaria Alpi e l'operatore tv Marcello Palmisano. Ancora una volta, come è avvenuto in Bosnia, la comunità internazionale si scopre pressoché impotente di fronte alla drammatica crisi che sta devastando un paese.
La guerra civile in Ruanda 
Quella che si consuma in Ruanda (ma anche, seppure con meno fragore, nel Burundi) nel 1994 non è soltanto una guerra civile, ma un vero e proprio genocidio, perpetrato con un odio e un accanimento che hanno radici profonde nella storia del paese.
I lunghi anni di colonizzazione prima tedesca (1897-1916) poi belga (1916-1962) hanno sopito, ma non risolto, la secolare rivalità tra le tre popolazioni locali, twa, tutsi e hutu. Quest'ultima, tradizionalmente dedita all'agricoltura, rappresenta l'80% circa della popolazione, ma ha sempre avuto un ruolo subordinato rispetto al gruppo tutsi che, con l'appoggio dei colonizzatori belgi, deteneva tutte le leve del potere.
I tutsi vantavano anche una superiorità "morale": essi discenderebbero infatti da Cam, figlio di Noè, e, in quanto camiti, si considerano "superiori" rispetto ai primi occupanti di quella regione (twa e hutu), di stirpe bantu.
Le autorità coloniali si erano sempre schierate dalla parte dei tutsi, fino a quando, negli anni Cinquanta, questi cominciarono ad avanzare pretese indipendentistiche; i belgi passarono allora a sostenere gli hutu, e questo voltafaccia creò nel paese profondi squilibri sociali, che rinfocolarono l'odio etnico.
Dopo l'indipendenza, ottenuta nel 1962, il potere, sia politico sia militare, è passato nelle mani degli hutu, che lo gestiscono in maniera pressoché totalitaria, escludendo completamente i tutsi. Questi allora costituiscono, in esilio, un movimento di opposizione, il Fronte patriottico ruandese (Fpr) che, a partire dal 1990, sferra continui attacchi contro obiettivi hutu in Ruanda.
La situazione precipita improvvisamente il 6 aprile 1994, quando in un attentato viene abbattuto l'aereo presidenziale con a bordo il presidente del Ruanda, Juvénal Habyarimana, e quello del Burundi, Cyprien Ntaryamira. La guardia presidenziale e l'esercito attuano un immediato golpe militare e avviano un programma di violenta repressione, che si basa sulla sistematica eliminazione fisica dei dissidenti tutsi.
Massacri e fughe 
Si combatte casa per casa, e migliaia e migliaia di persone vengono mutilate o uccise per lo più a colpi di machete, per poi essere seppellite in fosse comuni.
Non meno drammatica è la situazione dei profughi (più di un milione su una popolazione totale di sette milioni di persone), ammassati in campi del vicino Zaire e della Tanzania, e decimati da carestie ed epidemie.
Anche in questo caso l'intervento internazionale, limitato all'invio di aiuti umanitari, si dimostra essere assolutamente tardivo e inefficace: il mondo assiste impotente a questo nuovo massacro, anche se l'Onu istituisce appositamente un tribunale internazionale per giudicare i cosiddetti "crimini contro l'umanità".
Alla fine del 1994 il nuovo presidente Pasteur Bizimungu, nominato dal Fpr, cerca di avviare il processo di ricostruzione del paese incoraggiando il ritorno dei profughi, ma la situazione di questo martoriato e poverissimo angolo di Africa è ben lungi dall'essersi completamente normalizzata.
La fine della segregazione razziale in Sudafrica 
Nell'intricato panorama africano costituito da guerre e da lotte contro il sottosviluppo, gli anni Novanta registrano comunque un'importante conquista politica e sociale: la nascita della "nuova repubblica sudafricana", fondata non più sul principio della discriminazione razziale (
apartheid), ma sull'uguaglianza e sulla democrazia.
Da quarantasei anni la Costituzione che reggeva la repubblica sudafricana si fondava su una rigida separazione tra bianchi e neri: questi ultimi, che rappresentano la grande maggioranza della popolazione, non godevano dei diritti politici, non erano ammessi nei locali e negli uffici frequentati dai bianchi, in alcune regioni non disponevano neanche di un'anagrafe centrale che fornisse loro i semplici documenti comprovanti la loro stessa esistenza.
La discriminazione razziale investiva ogni aspetto della vita quotidiana, relegando i neri in quartieri-ghetto ai margini delle città e rendendo difficile per essi anche la ricerca di un lavoro che non si configurasse come mero sfruttamento della persona.
Tutto questo aveva creato forti tensioni sociali: gli attentati terroristici si susseguivano a ritmi sempre più incalzanti e per cercare di tenere a freno le rivolte dei neri il governo doveva ricorrere a forme di repressione che spesso sfociavano in veri e propri bagni di sangue.
Dal punto di vista economico, inoltre, il paese era fiaccato da una grave crisi interna e dagli embarghi internazionali, seppure parziali, decretati nel 1985 per punire le autorità sudafricane della loro politica segregazionista.
De Klerk e Mandela 
Fin dal 1987 erano cominciate delle trattative segrete tra il presidente De Klerk e Nelson Mandela, leader dell'African national congress (Anc), il principale partito di opposizione. Ai due va il merito di aver riconosciuto la necessità di far uscire il paese dal tunnel nel quale era precipitato e di aver compreso che questo poteva essere possibile solo a prezzo di un compromesso. Per questo entrambi vengono insigniti, nel 1993, del premio Nobel per la pace.
Già nel 1990 De Klerk dà inizio alla politica di liberalizzazione, abbattendo l'una dopo l'altra le principali leggi su cui si fondava il regime di 
apartheid.
Nel novembre 1993 viene stilata una Costituzione provvisoria che prevede l'insediamento di un governo di transizione, in attesa di libere elezioni, fissate per il mese di aprile 1994.
De Klerk e Mandela, ormai praticamente alleati dopo decenni di accesa rivalità (Mandela era rimasto in prigione per 27 anni, durante i quali aveva tuttavia continuato a rappresentare il principale punto di riferimento dell'opposizione al regime), devono tuttavia guardarsi ora da temibili avversari: da un lato l'estrema destra bianca e conservatrice, che non intende rinunciare ai propri privilegi, dall'altra l'Inkhata, il partito etnico zulu, che considera Mandela un traditore della causa dei neri.
Malgrado le difficoltà sia politiche sia amministrative (quasi tutti i neri sono sprovvisti di documenti di identificazione), il 27 aprile 1994 si tengono, in un clima abbastanza tranquillo, le prime elezioni libere e multirazziali della storia del Sudafrica. La vittoria va all'African national congress di Mandela, che ottiene il 62,65% dei suffragi; il partito di De Klerk ottiene invece il 26,4% e l'Inkhata il 10,5%. Nessuna delle altre formazioni raggiunge il 5%.
Il 9 maggio 1994 Nelson Mandela viene nominato presidente della repubblica. Egli stesso designa come suoi vicepresidenti Thabo Mbeki (presidente dell'Anc dall'agosto 1993) e Frederik De Klerk, il grande rivale di un tempo divenuto oggi uno degli artefici della transizione del paese verso un regime democratico e senza discriminazioni nei confronti delle persone di colore.
Il "nuovo Sudafrica"  
Il governo del "nuovo" Sudafrica è largamente dominato dall'African national congress, che può contare su 252 seggi parlamentari su 400: una maggioranza sufficiente a garantire l'avvio di una concreta opera di democratizzazione del paese e di superamento dei violenti contrasti razziali che per quasi mezzo secolo hanno dilaniato il tessuto sociale dello stato.
La nuova Costituzione sancisce undici lingue ufficiali, contro le due (afrikaans e inglese) che da sempre hanno dominato la vita civile e politica del paese. Se questa modifica costituzionale è indice della tolleranza del nuovo regime, è però anche sintomo dell'estrema eterogeneità della popolazione sudafricana: la scommessa di Mandela è anzitutto quella di costruire uno stato in cui tutte le varie componenti etniche possano sentirsi tutelate e rappresentate.
Occorre poi una politica economica che affronti i gravi problemi di disoccupazione e di sottoccupazione, creando nuovi e numerosi posti di lavoro, equilibrando i salari e ridistribuendo le aree da adibire all'agricoltura.
Infine, è necessario allestire un serio apparato sociale e assistenziale, che garantisca a ogni cittadino uguaglianza di diritti e di doveri soprattutto nel campo dell'istruzione e della sanità.
I problemi, perciò, non sono finiti. Gli squilibri sono talmente profondi che non è facile risolverli in maniera indolore. Il cammino sarà lungo, ma il Sudafrica ha già vinto la sua prima sfida
L'America di ReaganL'elezione a presidente di Reagan 
Quando, nel novembre 1980, il repubblicano Ronald Reagan, fino al 1966 attore cinematografico, diviene il 40° presidente, l'immagine internazionale degli Stati Uniti è ai suoi minimi storici.
Sia l'impotenza americana di fronte all'invasione russa dell'Afghanistan, sia, soprattutto, la vicenda degli ostaggi statunitensi da un anno nelle mani degli iraniani hanno infatti compromesso profondamente l'immagine pubblica di un paese che non è ancora riuscito a superare la cocente sconfitta subita nella guerra del Viet Nam.
E, quel che è peggio, tale perdita di credibilità viene sottolineata non soltanto da avversari e alleati esteri, ma anche dalla stessa opinione pubblica statunitense, che accusa di eccessiva debolezza l'amministrazione uscente del presidente Jimmy Carter (1976-1980).
Il "reaganismo" 
Su questo sentimento di 
orgoglio ferito fa leva l'agguerrita campagna elettorale condotta da Reagan, candidato del partito repubblicano, che promette al paese una "riscossa" in grado di riportarlo al rango di prima superpotenza, garante dell'ordine mondiale. Il popolo degli Stati Uniti risponde a questi forti richiami al patriottismo e ai valori tradizionali concedendo a Reagan un vero trionfo elettorale, che quattro anni dopo, in occasione delle successive elezioni presidenziali, si amplificherà fino a divenire una sorta di plebiscito.
Reagan rimarrà dunque alla Casa Bianca per otto anni, determinando un profondo mutamento di rotta nella storia americana e mondiale.
Il nuovo presidente avvia subito un programma per molti versi antitetico rispetto a quello del suo predecessore. In politica interna egli intende procedere al ridimensionamento dell'apparato burocratico e a una drastica riduzione della spesa pubblica, soprattutto di quella destinata alle istituzioni pubbliche e assistenziali (scuola, sanità, sussidi alla disoccupazione ecc.).
Il rilancio dell'economia è affidato a una politica totalmente liberista, che si basa sull'intraprendenza individuale e sull'ossequio alle leggi del mercato, nello sforzo di limitare il più possibile ogni forma di intervento statale e di assistenzialismo.
Il modello neoliberista reaganiano si basa infatti sul presupposto che la spesa pubblica impiegata per finanziare interventi sociali e assistenziali da un lato crea inflazione (uno dei grandi flagelli economici degli anni Settanta), dall'altro sottrae consistenti fondi agli investimenti produttivi.
Questa linea economica, che verrà comunemente definita "reaganismo", diverrà una sorta di simbolo degli anni Ottanta e segnerà un vero e proprio punto di rottura rispetto al modello dello 
stato sociale che era nato negli anni della ricostruzione postbellica, per sostenere le economie piegate dalla partecipazione alla lunga guerra mondiale.
Lo scudo spaziale 
Contemporaneamente Reagan mira a potenziare l'apparato difensivo americano, attraverso la cosiddetta Iniziativa di Difesa Strategica (SDI), più nota come 
Progetto dello Scudo Spaziale.
Si tratta di un complesso sistema difensivo basato sull'impiego di satelliti di osservazione e di sofisticate armi spaziali in grado di intercettare e abbattere i missili intercontinentali prima che essi giungano all'obiettivo prefissato.
Tale sistema avrebbe dovuto portare, secondo Reagan, alla progressiva eliminazione delle armi nucleari, perché ciascuna delle superpotenze sarebbe protetta dal proprio scudo stellare.
La politica estera di Reagan 
In politica estera, Reagan si assume l'arduo compito di far superare agli americani  ogni complesso d'inferiorità e imposta subito i rapporti con l'Unione Sovietica su un piano di "rigido confronto".
Per punire il Cremlino dell'invasione dell'Afghanistan approva una serie di misure che vanno dalla mancata ratifica del trattato Salt II sugli armamenti nucleari, concluso a Vienna due anni prima, alla sospensione delle forniture all'Urss di beni di prima necessità, in particolare grano.
Il primo quadriennio dell'amministrazione Reagan vede dunque un deciso irrigidimento della politica dei blocchi contrapposti: tale linea verrà notevolmente ammorbidita durante il secondo mandato presidenziale di Reagan (1984-1988), anche grazie alla politica riformistica intrapresa dal leader sovietico Gorbaciov, che nel frattempo si era insediato al Cremlino.
La politica estera di Reagan vede  inoltre un'accentuazione delle spinte interventistiche nelle aree più "calde" del globo: nella tormentata regione del Centro-America, egli sostiene massicciamente i movimenti anticomunisti del Nicaragua, che dal 1979 si fronteggiano in una sanguinosa guerra civile con il governo  sandinista appoggiato dall'Urss. Tale situazione perdurerà fino al 1990, quando il governo sandinista verrà sconfitto alle elezioni da una coalizione di partiti moderati.
Raegan svolge inoltre un'efficace azione di dissuasione nei confronti della Libia, nazione considerata tra le nazioni ispiratrici del terrorismo arabo internazionale.
In due occasioni, nel 1986 e nel 1988, è addirittura la VI Flotta degli Stati Uniti a dirigersi minacciosamente verso il Mediterraneo e a mettere in atto raid punitivi per ritorsione contro gli attentati terroristici e per cercare di ottenere la chiusura di impianti libici sospettati di produrre armi chimiche.
In particolare nel suo secondo mandato, grazie soprattutto, lo ripetiamo, ai migliorati rapporti con l'Unione Sovietica di Gorbaciov, Reagan va gradualmente stemperando la precedente linea politica volta a una sostanziale affermazione di forza, e si adopera per il mantenimento della pace mondiale e per il superamento di alcune crisi regionali.
I vertici con Gorbaciov tenutisi a Ginevra (1985), Reykjavik (1986), Washington (1987) e Mosca (1988) approdano a importanti accordi per la riduzione degli armamenti in Europa.
Un contributo decisivo Reagan dà anche alla transizione verso la democrazia nelle Filippine, dove nel febbraio 1986 termina la ventennale dittatura di Ferdinand Marcos, iniziata nel 1965.Le Filippine e il ritorno alla democrazia
All'inizio degli anni Ottanta il presidente delle Filippine Ferdinand Marcos, che da un periodo di vent'anni tiene l'arcipelago sotto il giogo di un regime dittatoriale inefficiente e corrotto, perde gradualmente l'appoggio degli Usa, tradizionali alleati, e della Chiesa cattolica, che rappresenta uno dei principali punti di riferimento interni.
L'opposizione si raccoglie attorno a Corazón (Cory) Aquino, vedova del leader liberale Benigno Aquino, fatto uccidere presumibilmente da Marcos.
Nel febbraio 1986, dopo una contestata vittoria elettorale ottenuta attraverso una serie di brogli, il dittatore cede di fronte ai crescenti disordini popolari e, di conseguenza, alla defezione di alcuni suoi collaboratori e abbandona il paese.
La guida del governo viene assunto da Cory Aquino, tuttavia la transizione verso la democrazia risulta essere tutt'altro che facile: per due anni si susseguono numerosi tentativi di colpo di stato operati sia dai nostalgici del dittatore Marcos sia dalla guerriglia comunista e islamica. Soltanto nel 1988 il nuovo corso riesce finalmente a consolidarsi, anche grazie al decisivo appoggio degli Stati Uniti e alla morte in esilio di Marcos.L'Urss di GorbaciovLa successione di Breznev 
Nell'Unione Sovietica all'inizio degli anni Ottanta regna il più assoluto immobilismo politico: il protrarsi di problemi ai suoi confini e il conservatorismo della cosiddetta 
nomenklatura (classe dirigente) allontanano ogni ipotesi di riforma interna. Alla fine del 1982 muore Leonid Breznev e il potere passa prima nelle mani di Yuri Andropov, quindi, alla morte di quest'ultimo (nel febbraio 1984), a Konstantin Cernenko, non a caso capo della corrente "brezneviana" interna al Pcus (il partito comunista sovietico).
L'immagine internazionale dell'Urss va progressivamente deteriorandosi, anche a causa della propaganda reaganiana, nella quale l'Unione Sovietica è rappresentata come l'impero del male.
In seguito al fallimento dei negoziati di Ginevra sugli euromissili (i missili, cioè, posti sul suolo europeo), in Germania Federale, Gran Bretagna e Italia cominciano a essere installati i Pershing 2 e i Cruise americani, che dovrebbero servire a ristabilire l'equilibrio nucleare in Europa infranto dal massiccio schieramento dei missili sovietici SS20.
In poco più di un anno, quindi, l'Urss ha dovuto affrontare due successioni al vertice e lo smacco di vedere accrescere l'apparato missilistico della Nato in Europa. Ai suoi confini non sembrano destinate a risolversi a breve termine le gravi questioni dell'Afghanistan e della Polonia. È da questa situazione di sostanziaIe stallo che l'Urss si affaccia al 1985, l'anno che rappresenta un vero spartiacque nella sua storia.
L'Urss delle riforme  
Nel marzo 1985, alla morte del conservatore Constantin Cernenko, viene eletto segretario del Pcus Michail Gorbaciov. Questi eredita una situazione sull'orlo del collasso: l'economia è fortemente arretrata, sia dal punto di vista tecnologico sia da quello produttivo; il sistema distributivo è afflitto da disfunzioni che rendono difficile l'afflusso delle merci in tutto il paese e favoriscono quindi l'affermazione del mercato nero; il mancato ricambio della classe dirigente e la rigidità del sistema burocratico hanno ormai determinato il diffondersi su larga scala di fenomeni di corruzione e di clientelismo nell'apparato statale.
Anche l'immagine internazionale dell'Urss risente del profondo divario socio-economico che separa il modello socialista da quello capitalista, il quale, per di più, sta vivendo negli anni Ottanta il suo momento di massimo sviluppo. Il ruolo di grande potenza mondiale che l'Unione Sovietica aveva consolidato negli anni Settanta in corrispondenza alla crisi americana seguita alla guerra del Viet Nam, va ora ridimensionandosi e il fallimentare intervento in Afghanistan è l'esempio migliore di questa fase di debolezza internazionale dell'impero sovietico.
Di fronte a tale situazione Gorbaciov decide di avviare un coraggioso programma di riforme che faccia uscire il Paese dalla stagnazione dell'epoca brezneviana e che, pur senza ripudiare formalmente il modello socialista, rinnovi profondamente la vita politica ed economica dell'Unione  Sovietica.
Perestrojka e glasnost 
Le parole d'ordine dell'era di Gorbaciov sono 
perestrojka (ristrutturazione, rinnovamento) e glasnost(trasparenza): egli, cioè, vuole giungere a un completo rinnovamento della società sovietica attraverso un programma riformistico improntato alla trasparenza, ovvero a un rapporto tutto nuovo tra classe dirigente e opinione pubblica.
Questo rapporto non dovrà più fondarsi, come succedeva in passato, sulla repressione del dissenso, bensì sulla comunicazione, sulla libertà di parola e di critica, sulla ricerca del consenso che nasce dalla comprensione.
Il "nuovo corso" gorbacioviano 
Dal punto di vista politico, si assiste anzitutto a un  ricambio al vertice del partito e alla riabilitazione di molti intellettuali ostili al passato regime (Sacharov e Solzenìcyn, tanto per citare solo i nomi più illustri).
Viene poi avviata una lunga serie di riforme costituzionali volte a democratizzare lo stato superando l'identificazione tra esso e il partito comunista: per la prima volta Gorbaciov consente la formazione di gruppi politici diversi all'insegna di un pluralismo che non ha precedenti dalla rivoluzione del 1917; viene così ammesso il concetto di competizione elettorale per l'ammissione in Parlamento.
L'obiettivo di Gorbaciov e dei riformatori è quello di trasformare l'Unione Sovietica in una sorta di repubblica presidenziale, retta da un presidente investito di ampi poteri ed eletto direttamente dal popolo. Lo stesso Gorbaciov  viene eletto presidente dell'Urss nel 1990.
Altrettanto importante è la vera e propria rivoluzione che Gorbaciov intraprende per modernizzare l'economia sovietica e metterla, per quanto possibile, al passo coi tempi. Egli accantona il modello collettivistico socialista e imposta una linea di politica economica più orientata al mercato; favorisce l'iniziativa individuale concedendo la possibilità di costituire imprese private; liberalizza il prezzo di alcuni prodotti agricoli; conduce una vera e propria guerra contro il clientelismo e la corruzione nella gestione dell'economia.
La nuova distensione 
Sul piano internazionale, invece, l'era di Gorbaciov si caratterizza per un deciso riavvicinamento tra le due grandi potenze, che delinea uno scenario completamente nuovo nei rapporti Est-Ovest. Il ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan, avvenuto nel 1988, e, successivamente, l'insieme degli accordi economici e militari con gli Usa di Reagan (e poi di Bush) per la riduzione degli armamenti strategici consentono finalmente al mondo di uscire dall'incubo della guerra atomica.
Gorbaciov dimostra di voler abbandonare completamente la logica dei blocchi contrapposti e capovolge la linea di politica estera che da decenni mirava a fare di Mosca il centro di un vero e proprio impero politico-militare.
Questo si fondava non solo sul controllo diretto dell'Europa orientale (secondo la concezione brezneviana della "sovranità limitata" degli stati che la compongono), ma anche su una serie di punti di contatto in tutto il mondo: Cuba, Mongolia, Yemen del Sud, Viet Nam, Corea del Nord, Afghanistan, Etiopia.
La debolezza di tale sistema politico-militare rispetto al blocco occidentale consisteva proprio nella mancanza di consenso interno, per cui Mosca era costretta a un uso ininterrotto della forza per impedirne la disgregazione.
Gli effetti della politica internazionale sovietica 
Il capovolgimento della politica estera sovietica perseguito da Gorbaciov esplica i suoi effetti anche all'interno di alcuni di questi paesi-satellite: lo Yemen del Sud, per esempio, si riunifica al Nord dando vita, il 22 maggio 1990, a uno stato unico; le due Coree avviano un principio di dialogo; il Viet Nam riprende i contatti con Cina e Stati Uniti, i due paesi contro i quali aveva più combattuto nei decenni precedenti.
Anche l'incontro con papa Giovanni Paolo II (dicembre 1989) dà la misura della volontà del Cremlino di abdicare al ruolo tradizionale di grande potenza  anticattolica e antioccidentale, e di proporsi come un possibile partner sia politico sia economico dell'Occidente.
La credibilità e la popolarità internazionale del 
nuovo corso sovietico è essenziale per Gorbaciov, sia per accrescere il suo prestigio personale, e cercare in tal modo di neutralizzare le forti resistenze interne riguardo il suo programma, sia per poter approfittare di nuove occasioni di crescita economica grazie alla cooperazione con l'Occidente.
D'altra parte Gorbaciov è ben consapevole che il collasso economico dell'Urss può essere evitato soltanto se gran parte delle somme spese finora per finanziare la sua politica di potenza saranno dirottate su un programma di modernizzazione dell'economia. Per poter far questo, non si può prescindere da un clima di distensione fra Est e Ovest.
L'esplosione dei nazionalismi 
Sul finire degli anni Ottanta gli sforzi di Gorbaciov  vanno via via assumendo l'aspetto di una lotta contro i mulini a vento. Certamente non è facile capovolgere 70 anni di vita politica ed economica immobilizzata e burocratizzata e tanto meno trasformare 
dall'interno (ossia senza l'intervento coercitivo di forze anche solo politiche esterne) un'economia collettivistica in una di mercato.
Proprio la rigidità del sistema e l'assenza di un ceto imprenditoriale fanno sì che non esista in Unione Sovietica una classe sociale preparata a fare da protagonista del cambiamento.
Non è certo interessata a riforme in senso democratico e liberista la 
nomenklatura sovietica, timorosa di perdere i propri privilegi. Neanche i ceti popolari, però, vedono di buon occhio queste trasformazioni che necessariamente, almeno a breve termine, non sono accompagnate da un maggiore benessere. Anzi, l'apertura verso il mercato e la liberalizzazione dei prezzi provocano la disgregazione delle vecchie strutture economiche senza che sia ancora possibile consolidare le nuove.
Ne risulta una situazione di forte instabilità: tutte le merci, persino i generi di prima necessità, sono difficilmente reperibili in commercio e, quando lo sono, hanno prezzi altissimi. In questa situazione Gorbaciov perde progressivamente l'appoggio delle masse popolari, la cui ostilità si salda con quella della classe dirigente conservatrice.
Le difficoltà vengono poi amplificate dalle spinte autonomiste che provengono da ogni parte dell'impero sovietico.
Le difficoltà della nuova politica 
La perdita di autorità del potere centrale fa venir meno il collante necessario a tenere insieme popolazioni estremamente diverse per etnia, religione e storia. Il rinnovamento politico in senso democratico viene sempre più spesso fatta coincidere, da storici e cronisti, con le tendenze separatiste delle repubbliche e il processo, una volta avviato, sembrerebbe essere inarrestabile.
Le prime a proclamare l'indipendenza (1990-1991) sono le tre repubbliche Baltiche - Estonia, Lettonia e Lituania - che erano state annesse all'Urss con il patto tedesco-sovietico del 1939.
Il fatto crea un precedente che spinge molte altre repubbliche ad avviarsi sulla strada dell'autonomia da Mosca, e in alcuni casi tale processo si accompagna all'esplosione di violente guerre civili tra gruppi etnici diversi che convivono nella stessa repubblica: è il caso di armeni e azeri in Azerbaigian.
Dopo qualche tentativo di usare la forza per piegare le repubbliche ribelli (in Georgia nel 1989, in Lituania nel 1991), Gorbaciov  propone loro un trattato che concede una maggiore autonomia, ma il precipitare degli eventi in seguito al colpo di stato dell'estate del 1991 farà subito accantonare il progetto.
La caduta del comunismo
La Polonia 
La situazione della Polonia era sempre stata anomala rispetto a quella degli altri Paesi dell'Est, soprattutto a causa della presenza di una radicata tradizione cattolica, con cui il regime comunista aveva sempre dovuto fare i conti.
Il generale Jaruzelski, al potere dal 1981, dopo un primo periodo all'insegna della repressione, governa il Paese in modo complessivamente moderato. Nel 1987, sull'onda delle riforme che stanno trasformando l'Urss di Gorbaciov, è costretto a imprimere una svolta democratica al suo regime: dopo aver riconosciuto ufficialmente il sindacato Solidarnosc, che aveva continuato a vivere nella clandestinità e a rafforzarsi anche grazie all'aiuto della Chiesa cattolica, è costretto a indire una consultazione elettorale fondata sul principio della libera competizione fra partiti, almeno per l'assegnazione di una parte dei seggi parlamentari.
Le elezioni si tengono il 4 giugno 1989 e vedono la sconfitta del Poup (il Partito comunista polacco) e il trionfo di Solidarnosc. Il 24 agosto viene designato il primo capo di governo non comunista: il popolare scrittore e giornalista cattolico Tadeusz Mazowiecki.
L'anno seguente, però, si verifica all'interno di Solidarnosc una scissione tra due formazioni, guidate rispettivamente da Mazowiecki e da Lech Walesa, il leader storico del sindacato e dell'intero movimento di opposizione al regime. È proprio Walesa che, nelle elezioni presidenziali del dicembre 1990, viene eletto presidente della repubblica polacca.
L'Ungheria 
In Ungheria si verificano nel 1988 dei tumulti popolari che chiedono la riabilitazione di Imre Nagy e degli altri uomini politici giustiziati dai sovietici nel 1956. II partito acconsente a queste richieste, esautora il capo dello Stato Janos Kádár e dichiara formalmente la completa indipendenza dall'Urss.
Gradualmente le truppe del patto di Varsavia, che si trovavano in Ungheria dal 1956, lasciano il paese. Vengono aperte le frontiere e consentita la libera circolazione ai cittadini.
Nell'ottobre 1989 il Congresso delibera che il partito comunista si trasformi in Psu (Partito socialista) e chieda l'adesione all'Internazionale socialista.
Comincia così il lento processo di democratizzazione della vita politica, che culmina, il 25 marzo 1990, nelle prime elezioni libere e multipartitiche.
Dalle urne esce vincitrice una formazione di centro-destra, il 
Forum democratico, mentre gli ex comunisti non riescono a superare il 10% delle preferenze.
La Bulgaria 
In Bulgaria la protesta popolare, esplosa nell'autunno del 1989, si intreccia con una lotta di potere all'interno del partito comunista. Nel mese di novembre i dirigenti riformisti del partito costringono alle dimissioni l'anziano capo dello stato Todor Zivkov, sostituendolo con il ministro degli esteri Petar Mladenov, che da tempo tramava contro di lui. Anche altri esponenti della vecchia guardia vengono allontanati.
Questo sostanziale ricambio della classe dirigente prelude alla concessione di una nuova Costituzione (luglio 1991), che fa della Bulgaria una repubblica democratica parlamentare. Nell'ottobre 1991 si tengono le prime libere elezioni, che sanciscono la vittoria del partito di opposizione "Unione delle forze democratiche". Nel gennaio 1992, infine, un esponente dello stesso partito diventa presidente della repubblica.
La rivoluzione in Romania 
Se negli altri Paesi dell'Est europeo il trapasso dal comunismo alla democrazia avviene in modo relativamente incruento, in Romania la rivoluzione prende fin dall'inizio una piega violenta e, per certi versi, ambigua.
Qui il dittatore Nicolae Ceausescu (detto il 
Conducator) aveva instaurato fin dal 1965 un dispotico regime autoritario basato sul suo potere personale e su una certa indipendenza dall'Unione Sovietica. La volontà di affermare rigidamente, in campo economico, il principio dell'autarchia aveva in pratica ridotto alla fame la popolazione.
I primi disordini scoppiano il 16 dicembre 1989 a Timisoara, città della Transilvania a maggioranza ungherese. Ceausescu risponde con una violenta repressione, ma i suoi sforzi finiscono per infrangersi contro la resistenza popolare e contro la defezione dell'esercito, che si schiera apertamente dalla parte degli insorti.
Solo la 
Securitate, la temibile polizia segreta rumena, resta fedele al dittatore, ma la sproporzione di forze è troppo grande, e così, dopo un tentativo di fuga, Ceausescu e sua moglie vengono catturati e giustiziati al termine di un processo sommario.
Il precipitare degli eventi nel giro di pochi giorni e soprattutto l'immediato appoggio dato dall'esercito agli insorti ha fatto sorgere qualche dubbio tra gli storici sulla matrice esclusivamente popolare di questa rivoluzione e ha fatto pensare che in realtà la rivolta potesse essere stata preparata da alcuni dirigenti del partito comunista rumeno, anche perché a loro è passata quasi subito la guida dell'insurrezione.
Dopo la morte di Ceausescu, comunque, il governo viene assunto da un Fronte di salvezza nazionale capeggiato da Ion Iliescu, Petre Roman e Dimitri Mazilu. Le successive elezioni politiche confermano l'appoggio popolare al Fronte e particolarmente a Iliescu, che viene eletto presidente della repubblica.
La Cecoslovacchia 
In Cecoslovacchia, dopo l'invasione sovietica del 1968, l'opposizione al regime oppressivo di Gustav Husak è guidata dal movimento 
Charta 77 (così chiamata perché fondata nel 1977), che raccoglie alcuni intellettuali progressisti guidati dallo scrittore Vaclav Havel. Proprio Havel è l'artefice principale di quella che verrà chiamata la rivoluzione di velluto, perché portata a termine senza alcuno spargimento di sangue.
I moti popolari scoppiati nell'agosto 1989 portano a una completa revisione degli avvenimenti del 1968 da parte dei nuovi dirigenti del partito comunista subentrati alla vecchia guardia.
Essi, però, non si dimostrano in grado di gestire la transizione: Husak viene costretto al ritiro e alla carica di capo dello stato viene chiamato Vaclav Havel.
Il vecchio Alexander Dubcek, il simbolo della primavera di Praga soffocata dai carri armati sovietici nel 1968, dopo vent'anni di esilio torna finalmente in patria e assume l'incarico di presidente del Parlamento (Dubcek morirà in un incidente stradale nel 1992).
Il "nuovo corso" viene sancito anche dalle elezioni del giugno 1990, che vedono la vittoria del partito di Havel, presente con la lista 
Forum civico.
I conflitti tra Boemia, Moldavia e Slovacchia 
La nuova Cecoslovacchia, però, si trova subito a dover affrontare un grave problema: le tre grandi regioni che la compongono - Boemia, Moldavia e Slovacchia - sono molto diverse quanto a tradizioni e sviluppo economico. La Slovacchia, in particolare, da sempre più povera e meno industrializzata, risente più delle altre del passaggio alla democrazia e dell'avvio di un'economia di mercato. Inoltre non beneficia di un consistente afflusso di capitali esteri dopo la 
rivoluzione di velluto, come accade invece per Boemia e Moldavia.
Il malessere popolare e l'ostilità verso il liberismo economico, perciò, è qui molto più forte che nelle altre regioni cecoslovacche, e di questo si avvantaggiano gli ex comunisti di Vladimir Meciar, che nelle elezioni svoltesi nel giugno 1992 ottengono in Slovacchia un ottimo risultato, mentre in Boemia e Moldavia la vittoria va alla lista della destra liberale di Vaclav Klaus.
La spaccatura tra le due parti del paese non potrebbe essere più netta.
Tuttavia, a differenza di quanto avverrà in altre aree europee, il dissidio viene risolto in maniera del tutto incruenta. Dopo lunghe trattative, il 1° gennaio 1993 viene ufficializzata la scissione, con la creazione di due stati autonomi e indipendenti: la Repubblica ceca, con capitale Praga, e la Slovacchia, con capitale Bratislava.
Dove il comunismo resiste: il caso della CinaIl crollo dei regimi comunisti nell'Europa dell'Est ha risparmiato solo due stati: la Cina e Cuba. Anche in queste due "isole" del socialismo reale, però, le difficoltà politiche ed economiche sono una testimonianza eloquente del fallimento del modello comunista.
In Cina l'anziano leader Deng Xiao-Ping ha avviato, fin dai primi anni Ottanta, una politica di riforme che ha progressivamente introdotto nella vita economica concetti del tutto estranei al modello socialista ortodosso: possibilità dei privati di ricavare utili dalla produzione agricola; gestione delle imprese improntata al raggiungimento di un profitto; impulso ai consumi privati ecc.
A questa modernizzazione economica, tuttavia, non si è accompagnata un'analoga  apertura politica verso la democrazia. Ciò ha provocato un crescente malessere, che è esploso nel maggio 1989. Il movimento studentesco occupa per settimane, col sostegno popolare, l'immensa piazza Tien-an-men, finché il 15 maggio, il governo decide di sgomberare la piazza con la forza.
Negli scontri rimangono uccisi centinaia di giovani. È questa una delle pagine più buie della storia cinese del dopoguerra.Il modello comunista di Fidel CastroA Cuba, invece, dopo la dissoluzione dell'Urss, che rappresentava il più importante punto di riferimento politico ed economico per l'isola, il regime di Fidel Castro subisce un vero e proprio tracollo economico e finanziario.
Anche a causa del rafforzamento del trentennale embargo americano, la popolazione è ormai alla fame: scarseggiano i generi alimentari, non vi sono sbocchi occupazionali, la moneta locale (il peso) vale poco o nulla anche per gli acquisti locali. Comincia dunque, nell'estate 1994, un massiccio esodo di clandestini verso la California, che provoca l'irrigidimento dei già tesi rapporti tra Usa e Cuba. Solo dopo lunghe trattative i due paesi raggiungono un accordo temporaneo, che tuttavia non rimuove completamente le cause del problema.
Nonostante tutto, però, il popolo cubano sembra nel complesso continuare ad avere piena fiducia nel proprio leader Fidel Castro, il quale si troverà sempre più a dover far quadrare i conti dell'economia di un paese dissestato per poter difendere l'ideologia socialista.La riunificazione tedescaCade il muro di Berlino 
Il simbolo più evidente del superamento della divisione del mondo in blocchi contrapposti concepita a Yalta dopo la fine della seconda guerra mondiale è la caduta del muro di Berlino e la riunificazione della Germania.
Anche nella Germania orientale il rinnovamento politico operato in Urss da Michail Gorbaciov incoraggia un particolare fermento popolare; questo esplode definitivamente nel maggio 1989, quando, in seguito alla riapertura della frontiera austro-ungherese voluta dal governo di Budapest, migliaia di cittadini della Germania Est si riversano, attraverso l'Ungheria, nei confinanti paesi dell'Europa occidentale.
Le autorità non possono ricorrere alla forza per porre fine all'esodo, sia per non provocare un bagno di sangue, sia a causa dell'atteggiamento di apertura mantenuto dal Cremlino.
Nel tentativo di calmare la folla e di salvare il regime, il 18 ottobre 1989 viene destituito Erich Honecker, segretario del partito comunista  e presidente della repubblica; al suo posto viene nominato Egon Krenz. Questi, il 9 novembre dello stesso anno, annuncia che il confine tra le due Germanie può essere attraversato liberamente; ne scaturisce un'incontenibile esplosione di entusiasmo, e nella notte tra il 9 e il 10 novembre il muro di Berlino, simbolo storico della divisione della città, viene preso d'assalto dalla popolazione sia dell'est sia dell'ovest, che comincia ad abbatterlo mostrando forte entusiasmo.
Helmut Kohl e la battaglia per la riunificazione 
Dopo la caduta del muro, gli avvenimenti si susseguono precipitosamente. A seguito delle pressioni popolari, Krenz è costretto a  dimettersi. Il suo successore, Hans Ulrich Modrow, convoca il 18 marzo 1990 le prime elezioni libere nella Germania Est, che danno un esito indubbiamente favorevole alla riunificazione del paese.
Alla causa della riunificazione, intanto, lavora instancabilmente anche il cancelliere della Germania Ovest, Helmut Kohl. Il 18 maggio egli conclude con il nuovo primo ministro tedesco-orientale Lothar de Maizière un
Trattato di stato che istituisce l'unione economica, monetaria e sociale tra le due Germanie.
Nel successivo mese di luglio Kohl, sempre più deciso a concludere la riunificazione, si reca a Mosca per ottenere l'assenso di Gorbaciov alla costituzione di uno stato unico e alla sua permanenza nella Nato, in cambio della rinuncia della Germania unita a produrre e disporre di armi chimiche, batteriologiche o nucleari. Nel frattempo il cancelliere cerca di dissipare le apprensioni del mondo occidentale nei confronti del nuovo colosso tedesco promuovendo, insieme all'allora presidente francese François Mitterrand, il processo di integrazione europea.
Il 12 settembre, infine, le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale - Usa, Urss, Francia e Gran Bretagna - firmano a Mosca il trattato che consente la riunificazione e concede piena sovranità alla nuova Germania unita. La cerimonia formale di riunificazione viene celebrata a Berlino il 3 ottobre 1990 e il 2 dicembre, Helmut Kohl diventa il primo cancelliere della Germania riunificata.
Le difficoltà della transizione
In quasi tutti i paesi dell'a1Europa orientale il passaggio da un'economia a pianificazione centralizzata a un'economia di mercato ha creato forti scompensi.
Il processo, infatti, non è stato portato avanti con gradualità, ma quasi sempre in maniera pressoché repentina, anche perché lo imponevano le condizioni poste dagli investitori internazionali per concedere aiuti e prestiti a questi paesi.
L'improvvisa liberalizzazione, però, ha comportato sostanzialmente un peggioramento della situazione economica, in termini di produzione, di occupazione, di aumento dell'inflazione, e anche di scarsa disponibilità di beni di consumo.
A ciò si aggiunge il fatto che in tutti questi paesi non vi è stato un vero ricambio della classe dirigente: le leve del potere economico sono state prese da quella stessa classe di professionisti che si era formata nel vecchio regime e che sola aveva la competenza necessaria per gestire il nuovo corso  dell'economia.
I nuovi manager, i veri beneficiari delle privatizzazioni delle aziende di Stato, sono quasi sempre espressione di quegli stessi gruppi che già rivestivano un ruolo politicamente ed economicamente importante. D'altra parte, come abbiamo visto, in alcuni stati il passaggio alla democrazia è stato "pilotato" proprio da dirigenti e burocrati del Partito comunista, che avevano perfettamente compreso la necessità di "riciclarsi" e avevano saputo indirizzare in questa direzione la loro azione politica. Questi due motivi - insoddisfazione delle masse popolari in seguito alla crisi economica e scarso ricambio della classe dirigente - sono probabilmente alla base dei successi elettorali che, dopo il 1992, gli ex comunisti hanno registrato in alcuni paesi: Lituania, Polonia, Ungheria.
Non si tratta, in realtà, di un passo indietro, bensì di un sintomo da un lato di un malessere popolare diffuso e molto evidente, dall'altro di come queste rivoluzioni, che sembrava dovessero rappresentare una svolta epocale, non abbiano tagliato completamente i ponti con il passato.Eltsin e la fine dell'UrssLa svolta politica del 1991 
Nell'agosto 1991 un gruppo di alti dirigenti del Partito comunista tenta un colpo di stato contro Gorbaciov, tenendolo prigioniero per tre giorni, insieme alla sua famiglia, nella residenza estiva. Il golpe viene però sventato dalla grande mobilitazione popolare, che si raccoglie attorno alla figura di Boris Eltsin, che da tempo contesta l'operato del presidente Gorbaciov.
Eltsin rifiuta in particolare il tentativo di modificare la società sovietica dall'interno della sua attuale realtà politica e considera troppo lenta e prudente la linea riformista di Gorbaciov.
Il ruolo fondamentale che Eltsin svolge nei drammatici giorni del golpe, catalizzando non soltanto l'opinione pubblica ma persino una larga fetta delle forze armate, finisce in pratica per fare di lui il vero arbitro della situazione, anche dopo la liberazione di Gorbaciov.
Nel giro di pochi mesi, la situazione precipita. Eletto a suffragio universale presidente della Repubblica Russa, Eltsin mette "in stato di sospensione" il partito comunista - che Gorbaciov aveva cercato di rinnovare senza tuttavia smantellarlo del tutto - mentre in altre repubbliche il partito viene addirittura dichiarato fuori legge.
Quasi tutte le repubbliche che Stalin aveva raccolto in federazione dichiarano la propria indipendenza: dopo le repubbliche baltiche, è la volta anche di Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Azerbaigian, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan. 
La crisi in IugoslaviaLa fine della federazione iugoslava 
Fin dalla metà degli anni Settanta nell'ambito della federazione voluta dal maresciallo Tito all'indomani della seconda guerra mondiale la convivenza tra le varie popolazioni, diverse per etnia e religione, si era fatta alquanto difficile. Nel 1974 una riforma costituzionale aveva concesso alle sei repubbliche che formavano la federazione (Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Macedonia) un'ampia autonomia tanto politica quanto economica. Da quel momento le sei repubbliche avevano cominciato a sviluppare una politica autonoma dal governo federale, che le aveva sempre più allontanate le une dalle altre e aveva accentuato il divario tra le repubbliche settentrionali (Slovenia e Croazia), più ricche e aperte ai contatti con l'Europa centrale e occidentale, e le altre repubbliche, più isolate ed economicamente arretrate. La morte del maresciallo Tito, avvenuta nel 1980, determina una brusca accelerazione di questo processo di disgregazione: dopo un breve periodo di transizione, nel quale le repubbliche cercano di giungere a un nuovo equilibrio all'interno della federazione, scoppiano i primi contrasti etnici che porteranno, attraverso uno dei conflitti più sanguinosi dal 1945 a oggi, alla definitiva scomparsa dello stato.
La secessione di Slovenia e Croazia 
Sono proprio le più progredite repubbliche del nord a dare il via al processo di dissoluzione. Nel settembre 1989 la Slovenia approva una serie di riforme costituzionali volte a garantirle un'indipendenza di fatto dal governo federale. Analogo provvedimento viene preso subito dopo anche dalla Croazia. Entrambe le repubbliche proclamano ufficialmente la propria indipendenza nel giugno 1991. Immediata la reazione del governo federale (dominato dai serbi), che manda l'esercito a stringere d'assedio le repubbliche ribelli.
Gli scontri si susseguono per diversi mesi con il loro sanguinoso tributo di vite umane, mentre, nel frattempo, si fanno evidenti le mire autonomistiche della Bosnia-Erzegovina.
Il governo federale decide allora di allentare la presa su Slovenia e Croazia - che verranno riconosciute dalla Comunità europea nel gennaio 1992 e successivamente ammesse anche all'Onu - e di concentrare i propri sforzi, sia politici sia militari, sul fronte bosniaco.
La guerra in Bosnia: le cause 
La repubblica di Bosnia-Erzegovina, che il 15 novembre 1991 proclama la propria indipendenza dal governo federale, si trova fin dall'inizio a dover combattere due guerre diverse: quella contro l'esercito federale di Belgrado e quella tra i tre gruppi etnici (serbi, croati, musulmani bosniaci) che compongono la sua popolazione.
I due conflitti di fatto si intersecano per l'alleanza tra i serbi di Belgrado (capitale della repubblica di Serbia) e i serbo-bosniaci, che rappresentano il 32% della popolazione della Bosnia e che condividono con i loro fratelli di Belgrado il sogno di formare una "grande Serbia", uno stato, cioè, che riunisca tutti i territori serbi presenti nelle repubbliche ex iugoslave.
La pulizia etnica 
Questo disegno viene tenacemente perseguito, a danno soprattutto dei musulmani di Bosnia, con la forza delle armi e con la feroce politica della "pulizia etnica", ossia l'eliminazione, da parte di un gruppo etnico dominante in un determinato territorio, degli appartenenti agli altri gruppi. La pratica della pulizia etnica, che richiama purtroppo alla mente le atrocità perpetrate dai nazisti in nome della "purezza della razza", nasce dal radicalizzarsi di un tipo di nazionalismo che non mira più, come nell'Ottocento, alla creazione di stati nazionali sempre più ampi, ma che punta anzi alla frammentazione in entità politiche ed economiche sempre più piccole, su base esclusivamente etnica.
La politica internazionale e l'aggressione serba 
La comunità internazionale si trova impreparata e indecisa di fronte a questo massacro. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu approva nel maggio 1992 l'embargo totale nei confronti della Serbia, ritenuta responsabile di aggressione ai danni della Bosnia, e il 23 settembre la espelle dall'assemblea generale delle Nazioni Unite. Solo nel marzo 1993 viene approvata una risoluzione che autorizza l'uso della forza per far rispettare la cosiddetta "zona di non volo" sui cieli della Bosnia, al fine di impedire gli attacchi dell'aviazione serba.
I serbo-bosniaci, intanto, consolidano ed estendono progressivamente le loro posizioni. Nel maggio 1993 Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia e Spagna elaborano un piano che riconosce di fatto le conquiste territoriali serbe istituendo sei "zone di sicurezza" controllate dai Caschi blu inviati dall'Onu e destinate a costituire altrettanti "ghetti" per la popolazione musulmana.
L'offensiva serba non si ferma neanche davanti a queste aree (
enclaves), che vengono sistematicamente accerchiate, sfiancate dall'assedio, bombardate senza alcun riguardo alla vita dei civili e quindi conquistate: oltre a Sarajevo (capitale della Bosnia), cadono in questo modo Srebrenica, Gorazde, Tuzla e Bihac (su quest'ultima città vengono gettate addirittura bombe al napalm, che non venivano più utilizzate dalla guerra del Viet Nam).
L'impotenza della comunità internazionale è evidente anche sul piano diplomatico, malgrado i ripetuti sforzi per arrivare a un accordo. Dopo la costituzione (18 marzo 1994) della Federazione croato-musulmana di Bosnia, l'ex presidente americano Jimmy Carter perora personalmente presso le autorità dell'autoproclamata repubblica serba di Bosnia un piano di pace internazionale, che prevede l'assegnazione alla neonata federazione croato-musulmana del 51% del territorio bosniaco, mentre il restante 49% verrebbe assegnato ai serbo-bosniaci. I serbi, tuttavia, non danno un assenso definitivo a questo piano e così, dopo una tregua durata quattro mesi, gli scontri armati riprendono a infuriare nel corso della primavera del 1995.
La svolta nella guerra 
Nel luglio 1995 si verifica una nuova, drammatica svolta nella guerra: l'intervento armato della Croazia, che da un lato intende riprendersi i territori che le sono stati sottratti dai secessionisti serbi della regione della Krajina, dall'altro appoggia la resistenza dei musulmani di Bosnia contro i serbi.
In poche settimane l'esito della guerra è capovolto: sotto i colpi dell'esercito croato i serbi vengono travolti e messi in fuga su vari fronti del conflitto. Migliaia di profughi serbi subiscono la stessa sorte che l'esercito aveva riservato prima ai musulmani di Bosnia.
Dal punto di vista militare, la guerra subisce una svolta; ciò che invece non cambia è la feroce violenza che si abbatte sulla popolazione, di qualunque gruppo etnico: nulla sembra riuscire a fermare un massacro che ha ormai assunto i contorni di un genocidio.
Nel mese di agosto 1995, l'ennesima strage di civili provocata dalla caduta di una granata su un affollato mercato di Sarajevo provoca la reazione militare della Nato, che comincia a bombardare pesantemente le basi serbo-bosniache minacciando di proseguire finché le truppe serbe non si saranno allontanate di almeno 20 km da Sarajevo.
È la prima volta nella sua storia che l'Alleanza atlantica sferra un attacco militare di questo genere e l'adozione della linea dura sembra finalmente produrre qualche risultato. Il 26 settembre 1995 viene raggiunto all'Onu un primo compromesso tra serbi, croati e musulmani sul futuro della Bosnia.
Alle trattative fa seguito una tregua militare che lascia aperta la strada verso una pace solida e duratura.
L'America di ClintonIl tramonto del reaganismo 
Il 3 novembre 1992 si tengono negli Stati Uniti le elezioni presidenziali: il candidato del partito democratico, Bill Clinton, sconfigge nettamente, con il 43% delle preferenze, il presidente uscente, il repubblicano George Bush, che ottiene il 38% dei voti.
È la fine di un'epoca. Gli otto anni di permanenza di Ronald Reagan alla Casa Bianca (1980-1988) seguiti dai quattro anni di Bush (1988-1992) hanno davvero cambiato il volto degli Stati Uniti, rafforzandone il ruolo esterno a prezzo, però, di una grave recessione interna.
Dopo la scomparsa della minaccia sovietica e la vittoriosa guerra del golfo, gli Usa rappresentano ormai l'unica superpotenza del mondo.
George Bush è stato l'uomo della vittoria contro il dittatore iracheno Saddam Hussein, ma la sua presidenza ha coinciso con il periodo di più lenta crescita economica attraversato dagli Stati Uniti dalla fine della seconda guerra mondiale.
Le ingenti spese militari hanno pesato enormemente sul debito pubblico, che è divenuto altissimo anche se il "reaganismo" economico, come abbiamo visto in precedenza, aveva limitato al massimo tutte le voci di spesa sociale.
La politica economica decisamente liberista ha rilanciato la piccola e media impresa, ma ciò non si è tradotto in un miglioramento del tenore di vita della popolazione; il tasso di disoccupazione, anzi, ha raggiunto livelli preoccupanti.
Dal punto di vista sociale, nessuno dei gravi problemi che affliggono gli Stati Uniti ha poi trovato soluzione: più che mai aperti sono rimasti i nodi dell'assistenza sanitaria e della previdenza sociale, assicurata a meno di trentacinque milioni di abitanti del paese (su una popolazione attiva di oltre centoventi milioni di persone). Anche la criminalità, comune e organizzata, ha continuato a imperversare in tutte le grandi città statunitensi, dove si assiste spesso anche a conflitti razziali tra la popolazione bianca e quella immigrata: quest'ultima, infatti, incontra ancora oggi grandi difficoltà a inserirsi a pieno titolo nel tessuto sociale americano.
L'ascesa del partito democratico 
Questa situazione ha alimentato nell'opinione pubblica un diffuso malcontento: mentre si riconosce alla lunga amministrazione repubblicana il merito di aver riaffermato la supremazia internazionale degli Stati Uniti, la si incolpa di aver eccessivamente trascurato i problemi interni. Per tutta la campagna elettorale, perciò, la popolarità di Bush subisce un calo progressivo e inesorabile, a tutto vantaggio del candidato del Partito democratico, l'ex governatore dell'Arkansas Bill Clinton.
L'esito delle elezioni presidenziali appare dunque ampiamente scontato: tutti i sondaggi della vigilia danno per certa la vittoria di Clinton. E, una volta tanto, la storia darà ragione ai sondaggi: il 20 gennaio 1993 Bill Clinton si insedia alla Casa Bianca come 42° presidente degli Stati Uniti d'America.
La presidenza di Bill Clinton 
Il programma del nuovo presidente è quasi completamente imperniato sull'esigenza di cambiamento della politica economica e sulla necessità di abbandonare gli eccessi provocati dallo sfrenato liberismo economico che hanno caratterizzato l'era repubblicana.
L'obiettivo primario di Clinton è quello di rilanciare l'economia attraverso incentivi alla produzione industriale e alle esportazioni, oltre che con un ampio programma di spese pubbliche, in particolare nel settore della sanità.
Un piano senza dubbio ambizioso, che però deve fare i conti con un pauroso disavanzo pubblico lasciato in eredità dalla precedente amministrazione.
Di fronte alle difficoltà oggettive, tuttavia, l'atteggiamento di Clinton, sicuro e rassicurante in campagna elettorale, si fa via via più incerto e contraddittorio.
Se vogliamo tentare un bilancio dei primi anni della presidenza Clinton, dobbiamo ammettere che una ripresa economica c'è stata, ma che nel complesso l'opinione pubblica non ne ha tratto beneficio. Il Pil (prodotto interno lordo) è aumentato, ma più nei settori che tradizionalmente "consumano" la ricchezza (sanità, ristorazione ecc.) che non in quelli che la producono (industria).
Il tasso di disoccupazione è sceso, ma si tratta per lo più di lavoro precario, a tempo parziale o determinato, con insufficienti garanzie contrattuali in materia di retribuzione e di contribuzione previdenziale e assistenziale.
Tra i lavoratori regolari a tempo pieno, invece, uno su cinque, secondo dati ufficiali diffusi dall'amministrazione, ha percepito nel 1994 un reddito annuo inferiore alla soglia ufficiale di povertà, mentre uno studio comparato ha accertato che il salario medio di un panettiere statunitense è stato pari, sempre nel 1994, al sussidio di disoccupazione di un cittadino tedesco.
Le questioni sociali 
Quanto ai problemi sociali, permane irrisolto il grave nodo della riforma sanitaria, uno dei grandi cavalli di battaglia di Clinton durante la campagna elettorale. Inizialmente affidato a una commissione presieduta dalla 
first lady Hillary Clinton, che è anche uno dei più brillanti e noti avvocati d'America, il progetto è stato accantonato nel settembre 1994 a causa dell'ostruzionismo svolto dal Congresso.
Segna il passo anche la lotta alla criminalità; anzi, per la prima volta l'opinione pubblica si trova a dover fare i conti, oltre che con la criminalità comune, anche con sanguinosi attentati terroristici, che non si limitano più a colpire soltanto gli interessi americani all'estero, come era avvenuto finora, ma che seminano morte e distruzione sul suolo stesso degli Stati Uniti. È il caso dell'attentato compiuto alle Torri Gemelle del World Trade Center di New York, effettuato nel febbraio 1993 da estremisti islamici, e di quello dell'aprile 1995 a Oklahoma City, che ha provocato più di duecento morti; quest'ultimo attentato, il più grave mai avvenuto in tutti gli Stati Uniti, è opera di un gruppo paramilitare di orientamento neonazista.
Le difficoltà dei democratici 
Tutto questo fa scendere inesorabilmente la popolarità del presidente Clinton, come testimoniano le elezioni del cosiddetto "mid-term" (metà mandato), tenutesi l'8 novembre 1994 per il rinnovo della Camera, di un terzo del Senato e di trentasei governatori su cinquanta.
I democratici subiscono un vero e proprio tracollo elettorale e, per la prima volta in quarant'anni, perdono la maggioranza al Congresso: il presidente democratico si troverà quindi a dover "convivere" con un Congresso a maggioranza repubblicana, e questo non gli faciliterà certo la vita.
Non va meglio per i governatorati: esce sconfitto dalle urne persino il celebre Mario Cuomo, governatore uscente dello Stato di New York e personalità di spicco del Partito democratico, battuto dal repubblicano George Pataki, un "uomo nuovo" della politica che ha impostato tutta la sua campagna elettorale sul ristabilimento dell'ordine e sul ripristino della pena di morte nello stato.
Un cenno, infine, agli scandali che contribuiscono a offuscare l'immagine del presidente. Oltre agli scandali "rosa" relativi a presunte relazioni extraconiugali di Clinton (episodi che possono far sorridere noi europei, ma che hanno un'importanza notevole nella scala di valori dell'americano medio), va ricordato il cosiddetto "affare Whitewater": si tratta di presunti illeciti che, secondo alcuni, i coniugi Clinton avrebbero compiuto nella gestione del complesso immobiliare Whitewater, i cui proventi sarebbero serviti a finanziare la campagna elettorale dell'allora governatore dell'Arkansas, Bill Clinton appunto.
La politica internazionale di Clinton 
Se all'interno la ripresa si fa attendere, le cose non vanno molto meglio per gli Usa sul piano internazionale.
Dopo i fasti seguiti ai successi conseguiti nella guerra del golfo, gli Stati Uniti tendono ad abbandonare il ruolo di "gendarmi" del pianeta e ad assumere invece quello di "paladini" della pace nel mondo. La caduta del comunismo e il "profondo rosso" del bilancio federale impongono una riduzione dell'impegno militare degli Usa: Clinton annuncia perciò che la sua linea di politica estera sarà limitata a missioni di pace nelle zone "calde" del globo.
Il bilancio di tali azioni di pace, però, sarà, almeno nel primo biennio presidenziale di Clinton, alquanto fallimentare.
Valgano per tutti i due casi più eclatanti: la Somalia e la Bosnia. In Somalia il ritiro del contingente militare statunitense assume le sembianze di una indecorosa ritirata. Questa "figuraccia", tuttavia, è costata agli Stati Uniti la morte di trenta militari e una spesa di due miliardi di dollari.
In Bosnia, l'atteggiamento altalenante tenuto per anni da Clinton, incerto tra l'adozione delle "maniere forti" e la tentazione di abbandonare il problema agli europei, non giova certo alla soluzione di una delle crisi più profonde del dopoguerra. Di fronte alla tragedia della guerra in Bosnia, le missioni diplomatiche dimostrano la loro inadeguatezza e, purtroppo, la loro inutilità, e soltanto nell'estate del 1995, quando gli Stati Uniti decidono di adottare la linea "dura" appoggiando i massicci raid aerei della Nato su obiettivi militari serbi, la situazione sembra sbloccarsi.
Incongruenze nella politica estera 
Nel complesso, tuttavia, la politica estera di Clinton sembra improntata a una certa improvvisazione, che lascia trasparire l'assenza di una vera regia. Mentre si usa, per esempio, il pugno di ferro contro Cuba, colpita da un embargo trentennale che ha ridotto la popolazione alla fame, viene ratificata alla Cina l'importante clausola commerciale di "nazione più favorita", svincolando di fatto i rapporti economici dalla pregiudiziale del rispetto dei diritti umani.
Tale discontinuità e incertezza in politica estera non rinvigorisce certo l'immagine internazionale di Clinton, il quale, anche nei colloqui con il presidente russo Eltsin, dà l'impressione di non riuscire sempre a tenergli testa.
L'egemonia degli Stati Uniti si sposta sul piano commerciale: nella prima parte del suo mandato, Clinton riesce a portare a termine importanti accordi economici come quello di libero scambio con Canada e Messico (Nafta), di cooperazione nell'area Asia-Pacifico (Apec) e l'accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio internazionale (Gatt, poi sostituito dal Wto).
La fine dei lunghi embarghi contro il Sudafrica e il Viet Nam hanno poi aperto nuovi mercati alle grandi industrie statunitensi (General Motors, Coca-Cola), che rappresentano veri e propri gruppi di pressione politica.
Nel complesso, l'amministrazione Clinton sembra caratterizzarsi, in politica estera, per un minore interventismo politico, parzialmente compensato da una maggiore pressione economica.
Nelle elezioni presidenziali tenutesi il 5 novembre 1996 il presidente Clinton si vedrà riconfermato nel suo incarico con una netta maggioranza di voti.
Medio Oriente: anni OttantaGli accordi di Camp David 
Nella seconda metà degli anni Settanta al grave problema della questione medio-orientale, imperniata sul conflitto arabo-israeliano per l'assetto territoriale della Palestina e sulla condizione dei profughi palestinesi,  si era aggiunto il problema del Libano, dilaniato dalla guerra civile e divenuto terreno di scontro tra musulmani filopalestinesi e cristiano-maroniti sostenuti da Israele.
Per cercare di giungere a una composizione del conflitto tra stato d'Israele e mondo arabo, il presidente americano Jimmy Carter convoca nel settembre 1978 il primo ministro israeliano Menahem Begin e il 
rais(presidente) egiziano Anwar el-Sadat nella sua residenza estiva di Camp David. I tre siglano uno storico accordo che pone fine a trent'anni di inimicizia tra Egitto e Israele e che sembra concretizzare le speranze in una prossima e definitiva risoluzione di tutta la questione medio-orientale. L'intesa rappresenta una sorta di preliminare al trattato di pace (che verrà stipulato nel marzo successivo), subordinato al ritiro delle truppe israeliane dal Sinai; stabilisce, inoltre, il ritiro delle forze dell'Onu dall'area del conflitto e definisce alcuni principi-base per futuri accordi tra Israele e gli altri stati arabi, nell'ottica di una totale pacificazione del Medio Oriente.
Ben presto, però, appaiono in tutta la loro evidenza i limiti del trattato di Camp David: esso, infatti, si limita a regolare uno solo degli elementi del conflitto, quello dei territori contesi tra Egitto e Israele, ma non affronta le vere radici  della questione medio-orientale, in particolare la creazione di uno stato palestinese autonomo. Il governo israeliano su questo aspetto sembra irrigidirsi in una posizione di assoluta intransigenza: conferma che i territori di Giudea e Samaria, meglio conosciuti con il nome di Cisgiordania, appartengono storicamente a Israele; emana un'apposita legge (agosto 1980) con la quale proclama Gerusalemme capitale indivisibile di Israele e infine ordina (dicembre 1981) l'annessione del territorio occupato del Golan siriano.
L'attentato a Sadat 
Il riavvicinamento tra Egitto e Israele in seguito agli accordi di Camp David viene avvertito come una sorta di tradimento da parte degli stati arabi oltranzisti, indispettiti anche dal sostegno che Sadat nei suoi ultimi giorni di presidenza decide di dare al deposto scià dell'Iran. Il rais, che anche in politica interna ha avviato una riforma dello stato in senso marcatamente liberista attirandosi l'odio dell'opposizione di sinistra, è ormai solo di fronte alle minacce interne che vanno a saldarsi con quelle dei palestinesi e degli altri popoli arabi.
Il 6 ottobre 1981, mentre assiste a una parata militare al Cairo, Sadat viene ucciso da un commando di militari. 
Il potere viene assunto dal suo vicepresidente, Hosni Mubarak,  che, pur mantenendo una posizione moderata, prende in qualche modo le distanze dal suo predecessore, cercando di riguadagnare il consenso interno e riaprendo il dialogo con l'opposizione. In politica estera interrompe la linea di progressivo avvicinamento all'Occidente, ristabilendo i rapporti diplomatici con l'Unione Sovietica e cercando di riallacciare i contatti con la Lega araba, nella quale l'Egitto viene riammesso nel 1987.
La rivoluzione islamica in Iran 
Fin dalla primavera del 1978 tutto l'Iran è scosso da tumulti e manifestazioni popolari che chiedono a gran voce la cacciata dello scià Rheza Pahlevi e il ritorno dell'ayatollah Khomeini, l'anziano capo religioso che dal suo esilio francese continua instancabilmente a predicare l'avvento di una rivoluzione  islamica purificatrice.
Nel gennaio 1979, l'aggravarsi della situazione interna, ormai sull'orlo dell'insurrezione popolare, convince lo scià della necessità di assicurare un trapasso incruento: col pretesto di un viaggio diplomatico, Reza Pahlavi lascia l'Iran con tutta la famiglia reale, dopo aver nominato un consiglio di reggenza e affidato il governo a Shapur Baktiar.
Il 31 gennaio l'ayatollah Khomeini torna trionfalmente a Teheran e assume di fatto le redini del potere, benché formalmente, deposto Baktiar, il governo passi nelle mani prima di Mehdi Bazargan, poi di Abulassan Bani Sadr.
Khomeini instaura un regime teocratico duro e intransigente, ispirato alle più rigide prescrizioni del Corano, fomentando nel popolo un cieco e pericoloso fanatismo religioso-politico. Il nuovo regime entra subito in rotta di collisione con gli Stati Uniti, accusati da Khomeini di essere il grande Satana e, alla fine del 1979, la situazione sembra precipitare quando un commando di sedicenti "studenti" islamici fa irruzione nell'ambasciata statunitense a Teheran e sequestra 52 diplomatici Usa. Solo dopo un anno di frenetiche trattative, il nuovo presidente statunitense Reagan riuscirà a ottenere la liberazione degli ostaggi.
Il fondamentalismo islamico
Si tratta di un'ideologia politico-religiosa che caratterizza i movimenti islamici di tendenza più radicale. È fondata sul presupposto dell'esistenza di un legame diretto tra i precetti religiosi desunti dal Corano e l'organizzazione politica dello Stato. Dato che il Corano contiene la Legge divina, sacra e immutabile, annunciata dal profeta Maometto, allora lo Stato, che è identificabile con la comunità dei credenti uniti dalla medesima fede, è tenuto a uniformarsi a essa in tutte le sue manifestazioni: istituzioni politiche, ordinamenti giuridici, linee-guida di politica economica ecc.
Ogni forma di laicizzazione della vita pubblica, ovvero di separazione della politica dai princìpi religiosi dell'islàm, è giudicata come una sorta di intervento di Satana ed è perciò dannosa e da combattere. In particolare, i fondamentalisti si oppongono con forza all'importazione di modelli e comportamenti di derivazione occidentale, che potrebbero corrompere l'identità islamica.
I movimenti integralisti, finanziati e fomentati soprattutto dall'Iran, aspirano inoltre alla diffusione dell'islàm a livello mondiale e per la realizzazione di questo progetto non esitano a far ricorso alla strategia del terrorismo internazionale. I loro attentati sono rivolti soprattutto contro gli Stati Uniti, considerati il regno di Satana, e contro i loro alleati.
La guerra Iran-Iraq 
A rendere più complicata la situazione dell'Iran si aggiunge una controversia con l'Iraq per la sovranità sulle acque dello Shatt el-Arab, contesa che nel settembre 1980 degenera in guerra aperta; la posta in gioco è la supremazia nella regione del golfo Persico e, più in generale, in tutto il mondo arabo.
Se nei primi due anni di conflitto l'Iraq, armato dall'Occidente che lo considera un baluardo contro il dilagare del fanatismo islamico, sembra avere la meglio, nel 1982 si riorganizza la controffensiva iraniana e la guerra mantiene un andamento incerto destinato a trascinarsi per molti anni.
Il prolungarsi del conflitto, oltre a mettere in ginocchio le economie dei due paesi belligeranti, si ripercuote negativamente sull'intero mondo arabo che, anche in questa circostanza, non riesce ad assumere una posizione unitaria: sostengono l'Iraq i paesi arabi moderati, in particolare Arabia Saudita, Giordania e Marocco: dalla parte dell'Iran si schierano Siria, Libia, Algeria e Olp.
In due fasi distinte riprese, nel 1983 e nel 1987, la guerra minaccia direttamente le installazioni petrolifere del golfo Persico, tradizionale luogo di approvigionamento energetico dell'Occidente.
Nell'estate del 1987 gli Stati Uniti (cui si aggregano Francia, Gran Bretagna e Italia) decidono di intervenire, assumendo al contempo l'incarico di scortare le petroliere in transito nel golfo.
La decisione americana scatena la furiosa reazione iraniana, che bandisce una vera e propria "guerra santa" nel tentativo di impedire l'intervento della flotta statunitense, ignorando la risoluzione dell'Onu che impone un immediato cessate il fuoco in tutta la regione.
La tensione sale per tutta la prima metà del 1988, finché, nel mese di agosto, una mediazione del segretario dell'Onu Perez de Cuellar ottiene una tregua seguita da immediate trattative di pace.
La guerra, durata otto sanguinosi anni, finisce così, senza vincitori né vinti.
La guerra in Libano 
Indipendente dal 1946, il Libano aveva goduto per circa un ventennio di una posizione privilegiata nell'ambito del mondo arabo, grazie a un particolare regime fiscale che attirava ingenti capitali esteri e a una politica estera moderata e filo-occidentale.
Gli squilibri cominciano dopo il conflitto arabo-israeliano del 1967, che provocò una massiccia immigrazione palestinese nel Libano, ulteriormente amplificatasi nel 1970 dopo l'espulsione dei palestinesi dai territori giordani.
L'Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) fissa qui il proprio quartier generale e proprio dal Libano meridionale dirige i suoi attacchi contro Israele, esponendo di conseguenza la regione alle controffensive israeliane.
A questa situazione si salda una sanguinosa guerra civile, in atto a partire dal 1975, tra la maggioranza musulmana (scissa al suo interno nei due gruppi degli sciiti e dei drusi), alleata dei palestinesi, e la minoranza cristiano-maronita, la quale detiene quasi completamente le principali leve del potere.
L'infuriare della guerra apre la strada alla presenza delle truppe straniere nel paese: fin dal 1976, la Siria ha occupato la parte orientale del Libano, mentre nel 1982 Israele ha avviato l'operazione 
Pace in Galilea, vera e propria invasione del Libano meridionale che si pone come obiettivo dichiarato lo smantellamento definitivo del quartier generale dell'Olp a Beirut, la capitale.
Il governo libanese chiede l'intervento di una forza multinazionale di pace: aderiscono all'invito Francia, Stati Uniti, Italia e, in seguito, Gran Bretagna, ma nemmeno l'intervento internazionale riesce a pacificare la regione.
Nel 1983 il presidente libanese Amin Gemayel stipula con Israele un trattato di pace per effetto del quale deve essere disposto il ritiro delle truppe israeliane dal Libano meridionale. La situazione, tuttavia, resta inalterata visto il perdurare dei conflitti tra Israele, Siria e alcune fazioni libanesi, nonché dei dissidi interni all'Olp tra la componente filosiriana e quella fedele a Yasser Arafat.
La forza multinazionale di pace viene definitivamente ritirata nel 1984 e, di fronte al precipitare della situazione, il presidente Gemayel impugna il trattato di pace con Israele e chiede l'intervento della Siria. Questa svolge un ruolo per certi versi ambiguo e contraddittorio e, pur non riuscendo a far tacere le armi né tra cristiani e musulmani né tra i diversi gruppi musulmani, si avvia, soprattutto dopo il ritiro delle truppe israeliane avvenuto nel 1985, a divenire il vero arbitro della situazione libanese.
Medio Oriente: anni NovantaLa guerra del golfo 
Alla fine del conflitto con l'Iran, l'Iraq vede rafforzata la sua potenza militare, ma fortemente compromessa la sua situazione economica.
Da questo punto di vista, un'ulteriore e grave minaccia viene dalla decisione del piccolo ma ricchissimo emirato del Kuwait di incrementare la produzione di greggio, in palese violazione degli accordi assunti dall'Opec (l'organizzazione che riunisce gli stati produttori di petrolio). Il Kuwait comincia infatti a estrarre enormi quantità di petrolio dai giacimenti di Rumalia, una regione di confine sulla quale l'Iraq avanza da tempo rivendicazioni territoriali.
Una tale politica da parte del Kuwait rischia davvero di dare il colpo di grazia alla già disastrata economia irachena, perché, aggravando la sovrapproduzione di petrolio, determina un ulteriore ribasso dei prezzi dei materiali energetici, che rappresentano il 90% delle risorse economiche dell'Iraq.
"Tempesta nel deserto" 
Il 2 agosto 1990 Saddam Hussein, 
rais dell'Iraq, invade il Kuwait, occupandone la capitale e i giacimenti petroliferi. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu adotta dapprima una serie di sanzioni economiche contro l'Iraq, che arrivano fino all'embargo totale; quindi, il 29 novembre, viene approvata (con i soli voti contrari dello Yemen e di Cuba, e con l'astensione della Cina) una risoluzione che legittima l'uso della forza se le truppe irachene non abbandoneranno il Kuwait entro il 15 gennaio 1991.
Scaduto l'ultimatum senza che Saddam Hussein dia segno di voler recedere dal suo proposito di annessione dell'emirato, il presidente americano George Bush (successore ed erede politico di Ronald Reagan) dà il via all'operazione "Tempesta nel deserto". La forza multinazionale alleata, il cui comando militare è affidato agli Stati Uniti, sferra un violento attacco nella notte tra il 15 e il 16 gennaio, bombardando massicciamente e a più riprese la capitale Bagdad.
Saddam Hussein tenta di legare la sua invasione del Kuwait alla questione palestinese e lancia ripetutamente missili contro Israele, sperando in una reazione dello stato ebraico. Egli mira a provocare il distacco dei paesi arabi dalla compagine antirachena, chiamandoli a una sorta di guerra santa contro l'Occidente. Israele, però, su sollecitazione di Bush, non reagisce.
L'offensiva degli alleati prosegue incessantemente fino alla fine di febbraio, quando Saddam Hussein abbandona il Kuwait e firma la resa dell'Iraq.
Le conseguenze del conflitto 
Da quel momento il 
rais di Bagdad rivolge tutti i suoi sforzi alla repressione interna: egli deve infatti fronteggiare continui tentativi di colpi di stato da parte di oppositori del regime e il separatismo della minoranza sciita nelle regioni meridionali del Paese, e dei curdi a nord.
La violenza con cui Saddam Hussein perseguita gli sciiti, e soprattutto i curdi, spinge l'Onu, nell'estate 1992, a creare due zone aeree protette, corrispondenti ai territori abitati da queste popolazioni, dove l'aviazione irachena non potrà volare: lo scopo è quello di impedire i continui e feroci bombardamenti di quelle regioni.
Saddam Hussein, però, vìola ripetutamente queste e altre risoluzioni prese dell'Onu, impedendo, per esempio, agli osservatori internazionali di compiere le ispezioni previste dal trattato di pace e minacciando nuovi tentativi militari di annessione del Kuwait.
Il perdurare di questa situazione determina, nel corso del 1993, nuovi scontri armati: Usa, Gran Bretagna e Francia bombardano a più riprese alcuni obiettivi militari posti nel sud del paese, mentre l'aviazione americana colpisce la sede dei servizi segreti a Bagdad.
È la popolazione irachena, intanto, a pagare lo scotto più pesante della guerra: l'embargo internazionale ha ormai messo in ginocchio l'economia dello Stato e la propaganda del regime serve sempre meno a far dimenticare al popolo problemi gravi come la carenza di generi alimentari e di medicine.
La questione palestinese 
L'inizio degli anni Novanta porta nell'annosa guerra tra israeliani e palestinesi una ventata di ottimismo.
Le due parti in conflitto sembrano infatti ammorbidire le loro reciproche posizioni e voler finalmente giungere a una seria trattativa di pace. Nel giugno 1992 le elezioni politiche israeliane sono vinte dal Partito laburista.
Il nuovo primo ministro, Yitzhak Rabin, si mostra subito più disponibile del suo predecessore Shamir: vista l'impossibilità di reprimere l'
intifadah (la cosiddetta "rivolta delle pietre" messa in atto dalla popolazione palestinese dei territori occupati) che infuria dal 1987 a Gaza e in Cisgiordania, Rabin si rende conto che non è più possibile negare il diritto dei palestinesi all'autodeterminazione e che, per giungere un accordo, occorre riconoscere l'Olp e ammetterla ai negoziati di pace.
Il leader dell'Olp Yasser Arafat, da parte sua, professa l'abbandono della pratica terroristica e limita i suoi obiettivi politici all'instaurazione di uno stato palestinese indipendente nei territori di Gaza e Cisgiordania.
E così, dopo lunghe trattative segrete svoltesi in Norvegia, il 13 settembre 1993 le due parti firmano a Washington, alla presenza del presidente americano Bill Clinton, una storica "Dichiarazione di principio sull'autogoverno palestinese". Essa prevede il ritiro dai territori occupati di Gaza e Gerico dell'esercito israeliano, che continuerà comunque a essere responsabile della sicurezza della zona, e soprattutto degli insediamenti ebraici che vi sono collocati.
Il trattato prevede inoltre l'elezione di un Consiglio palestinese e il passaggio graduale di tutti i poteri civili (fisco, sanità, istruzione, servizi sociali) all'amministrazione autonoma palestinese. Quest'ultima viene poi estesa anche alla Cisgiordania dall'accordo firmato da Peres e Arafat il 24 settembre 1995.
Una battuta d'arresto verso la pace 
Le fazioni estremistiche sia israeliane sia palestinesi si oppongono tuttavia a questi accordi, che considerano una sorta di "tradimento" degli ideali palestinesi: si susseguono, perciò, numerosi e sanguinosi attentati terroristici, che rischiano spesso di vanificare tutti gli sforzi compiuti sulla strada della pace.
Il 1° luglio 1994 Yasser Arafat rientra a Gaza dopo ventisette anni di esilio a Tunisi e viene acclamato presidente del nuovo stato palestinese. Si trova "tra l'incudine e il martello": viene contestato dagli integralisti del potente movimento Hamas, e deve rassicurare le autorità israeliane sulla sua capacità di rispettare gli accordi e di impedire il riacutizzarsi del terrorismo.
La pace in Medio Oriente è ancora incerta, ma il trattato del settembre 1993, perfezionato da quello del settembre 1995, rappresenta una svolta storica.
Il premio Nobel per la pace 1994 viene attribuito alle tre personalità che hanno reso possibile questa svolta: Itzhak Rabin, premier di Israele, Shimon Peres, ministro degli esteri israeliano, e Yasser Arafat.
Il 4 novembre 1995 Itzhak Rabin è assassinato da Yigal Amir e il giorno successivo Shimon Peres è nominato premier. Nel maggio 1996 è eletto Benjamin Netanyahu, che congela il processo di pace dei predecessori.
Nuove tensioni nel mondoL'intervento sovietico in Afghanistan  
Se gli anni Settanta avevano rappresentato, nel complesso, un momento di relativa distensione tra Usa e Urss, grazie ad alcuni accordi commerciali e militari e all'apertura politica dimostrata nei confronti dell'Unione Sovietica dalla Germania di Willy Brandt, gli anni Ottanta si aprono all'insegna di una nuova tensione bipolare, caratterizzata dalla corsa agli armamenti e dallo scontro ideologico e propagandistico.
In questi anni si formano i nuovi governi conservatori in Gran Bretagna, guidati da Margaret Thatcher, e soprattutto negli Stati Uniti, con i due mandati quadriennali consecutivi del presidente repubblicano Ronald Reagan. E sono anche gli anni nei quali nel blocco sovietico si manifestano le prime crepe.
Nel dicembre 1979 l'Armata Rossa invade il vicino Afghanistan, con lo scopo di abbattere con la forza delle armi il governo comunista di Afizullah Amin (che muore durante l'operazione), sostituendolo con un governo-fantoccio dipendente direttamente da Mosca, capeggiato da Babrak Karmal.
I vari governi che si erano succeduti a Kabul (capitale dell'Afghanistan) a partire dal colpo di stato comunista del 1978 non erano infatti riusciti a stroncare la resistenza del movimento islamico, che, col favore dell'opinione pubblica, minacciava di strappare l'Afghanistan dall'orbita sovietica.
Tuttavia, quella che nelle intenzioni del Cremlino avrebbe dovuto configurarsi come una rapida e pressoché indolore operazione politica, si rivela quasi subito una sorta di 
boomerang: da un lato infatti si scontra con l'agguerrita resistenza della popolazione afghana che si trasforma in un'instancabile guerriglia contro le truppe di occupazione, dall'altro finisce per attirare contro l'Unione Sovietica le ire di un Occidente dominato ormai  dalla politica rigida e intransigente del presidente statunitense Reagan e dalla sua alleata europea, la "lady di ferro" inglese, Margaret Thatcher.
La Polonia e Solidarnosc 
L'altra spina nel fianco dell'Unione Sovietica dei primi anni Ottanta è rappresentata dalla Polonia, un paese per certi versi anomalo rispetto al blocco dell'Europa orientale, soprattutto a partire dal 1978, quando l'elezione di un papa polacco, Karol Wojtyla, offriva alla Chiesa di Polonia una nuova forza, che avrebbe potuto dimostrarsi utile anche da un punto di vista politico.
Nell'estate del 1979, gli operai delle miniere di Danzica, polmone economico della nazione, danno il via a un lungo sciopero che ben presto assume la forma di una vera e propria sfida al regime; la protesta si diffonde rapidamente in tutto il paese, coordinata dal sindacato libero Solidarnosc e dal suo leader, Lech Walesa.
Il regime in un primo tempo adotta un atteggiamento conciliante e "morbido", riconoscendo il sindacato:  la rivolta, tuttavia, non si placa e, allo scopo di riportare l'ordine e forse anche di scongiurare un intervento armato sovietico, il partito mette in atto, nel dicembre 1981, un'operazione repressiva, proclamando lo stato d'assedio e insediando un Consiglio militare di salvezza nazionale alla cui presidenza viene posto il generale Jaruzelski.
Viene imposto il coprifuoco, la censura e il blocco delle comunicazioni con l'estero. Il sindacato Solidarnosc viene soppresso e tutti i suoi principali esponenti, compreso Lech Walesa, finiscono in prigione.
I provvedimenti eccezionali vengono revocati alla fine dell'anno, ed è a questo punto che entra in gioco il ruolo "politico" della Chiesa cattolica, che, attraverso il primate monsignor Glemp, ha assunto in numerose circostanze il ruolo di interlocutore di Jaruzelski e di polo di aggregazione dell'opposizione al regime.
Proprio per questo suo ruolo la Chiesa cattolica paga un prezzo molto alto: nell'ottobre 1984 padre Jerzy Popieluzko, un sacerdote molto vicino a Solidarnosc, viene rapito, torturato e ucciso da alcuni funzionari dei servizi segreti, che, all'insaputa di Jaruzelski, tentano in questo modo di suscitare una rivolta popolare per costringere il generale a ripristinare lo stato di guerra.
L'America Latina: il ritorno alla democrazia 
Gli anni Ottanta si aprono all'insegna dell'instabilità del continente latino-americano, sottoposto, nel suo complesso, al travaglio di una sanguinosa lotta politica tra le dittature militari insediatesi negli anni Sessanta e Settanta (e sostenute più o meno direttamente dagli Stati Uniti), e l'opposizione clandestina. La pesante crisi economica che attanaglia gli stati latino-americani scava un solco sempre più profondo tra l'opinione pubblica e i governi: la resistenza popolare minaccia sempre più da vicino la sopravvivenza stessa delle giunte militari, e queste reagiscono con una violenta politica repressiva, che non esita a ricorrere al sequestro e all'eliminazione fisica dei dissidenti.
In Argentina, solo nel 1983, all'avvento di un nuovo regime democratico, viene alla luce in tutta la sua gravità ed evidenza il fenomeno dei cosiddetti 
desaparecidos (scomparsi): migliaia di individui fatti "sparire" e poi barbaramente uccisi dalla giunta militare per la loro opposizione al regime.
Gradualmente, però, quasi tutti gli stati del Sudamerica intraprendono negli anni Ottanta la difficile strada verso la democrazia e, a una a una, le dittature lasciano il posto a governi democraticamente eletti: è il caso di Brasile, Perù, Bolivia, Guatemala, Uruguay, Ecuador, Argentina e, da ultimo, anche del Cile, che nel 1990 riesce finalmente a liberarsi della dittatura del generale Pinochet iniziata 15 anni prima.
Tale evoluzione politica è tuttavia alquanto fragile, sia perché non sempre si accompagna a un effettivo ricambio della classe dirigente, sia per il permanere degli enormi problemi economici e sociali legati al sottosviluppo. Questi paesi sono infatti caratterizzati da un elevato grado di dipendenza economica, da un alto tasso di inflazione e da tensioni sociali dovute soprattutto a povertà, sovrappopolamento, diseguaglianze sociali e criminalità.
Il tratto distintivo dell'economia di tutti questi Stati è poi l'enorme debito estero lasciato in eredità dai regimi dittatoriali, che vi erano ricorsi per sostenere le spese militari e per agevolare il processo di industrializzazione.
L'India verso lo sviluppo 
Nell'ottobre 1984 muore in un attentato Indira Gandhi, la grande statista indiana che, proseguendo la politica di suo padre Nehru, stava cercando di strappare l'India alla piaga del sottosviluppo. Grazie a una profonda rivoluzione agricola fondata su un completo rinnovamento delle tecniche, la Gandhi era riuscita a portare l'India all'autosufficienza alimentare e aveva anche avviato un consistente processo di industrializzazione.
Tuttavia ciò non era bastato a risolvere definitivamente il grave problema della fame, dovuto anche a un fortissimo incremento demografico: circa metà della popolazione indiana vive ancora oggi sotto la soglia di povertà, con strutture sanitarie carenti e un altissimo grado di analfabetismo. A uccidere Indira Gandhi è una sua guardia del corpo di nazionalità sikh (una minoranza etnica separatista contro la quale la Gandhi ha sempre mantenuto un atteggiamento fortemente repressivo). Le succede suo figlio Rajiv Gandhi, che proseguirà sulla stessa strada finché nel 1991 non cadrà anch'egli vittima di un attentato.
L'Unione EuropeaL'integrazione europea 
Sul finire degli anni Settanta subisce una forte accelerazione il tentativo, da parte degli stati dell'Europa occidentale, di fare della Cee (Comunità economica europea) un'organizzazione internazionale che favorisca la pace e lo sviluppo del continente, rendendola competitiva rispetto ai due colossi (Usa e Urss) che, dalla fine della seconda guerra mondiale, dominano il mondo.
Il 1979 vede la nascita di due nuovi strumenti di coordinamento economico-politico tra gli stati membri della Comunità (Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca). Il primo di questi strumenti è il Sistema monetario europeo (Sme): si tratta di un complesso meccanismo che stabilisce i rapporti di cambio fra le monete dei vari paesi, consentendone le oscillazioni solo entro limiti prefissati. Tutte le monete vengono poi rapportate all'Ecu, una moneta di conto che non esiste materialmente, ma che ha un valore di riferimento.
Il secondo strumento è di carattere politico: è il Parlamento europeo, un'assemblea sovranazionale eletta a suffragio universale da tutti i cittadini degli stati membri della Cee e che esercita un'attività per lo più consultiva.
Attraverso il Sistema monetario europeo e il Parlamento europeo si cerca di rendere il più possibile omogeneo lo sviluppo economico e politico dei singoli stati, oppressi dalla grave crisi economica degli anni Settanta.
Dalla CEE all'Unione Europea 
Proprio questa recessione, causata anche dal repentino aumento dei prezzi del petrolio e delle materie prime, provoca profondi squilibri tra gli stati, che reagiscono in maniera diversa, a seconda del grado di sviluppo e delle caratteristiche economiche di ciascuno.
Tali squilibri tendono ad approfondirsi con l'adesione alla Cee di tre nuovi membri: nel 1981 è il turno della Grecia, mentre la Spagna e il Portogallo vi entrano nel 1986. Risalta a questo punto nettamente il divario tra i paesi dell'Europa settentrionale e quelli dell'area mediterranea, economicamente più depressi e meno industrializzati, e ciò rende piuttosto difficile l'adozione di politiche unitarie fra gli stati.
Per cercare di riequilibrare, almeno parzialmente, la situazione, si procede, nel 1986, alla ratifica dell'Atto unico europeo, un documento che mira a favorire una maggiore integrazione fra i diversi paesi: esso infatti prefigura, tra l'altro, la costituzione di un mercato unico nel quale, aboliti i controlli alle frontiere, sia assicurata una libera circolazione di persone, merci, capitali e servizi.
Tale area di libera circolazione, inizialmente prevista per l'inizio del 1993, è entrata in vigore, per quanto riguarda la libera circolazione delle persone, solo nel marzo 1995, e riguarda unicamente sette paesi: Germania, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Spagna e Portogallo. L'Italia e la Grecia, che avevano chiesto di parteciparvi, non sono state invece ammesse, almeno in un primo tempo, perché in ritardo con gli impegni assunti con i partner europei.
Nel 1995, intanto, altri tre paesi - Austria, Finlandia e Svezia - entrano nell'Unione Europea (nuova denominazione, dal novembre 1993, della Cee). Il cammino verso l'integrazione è però sempre più in salita: sia le difficoltà economiche sia le tendenze nazionalistiche, esplose nell'Europa dell'Est (e non del tutto assenti anche in Occidente), fanno privilegiare gli interessi nazionali su quelli comunitari. Il colosso economico rappresentato dalla Germania riunificata esercita ormai un'egemonia indiscussa sull'articolato mosaico europeo: il marco tedesco si impone come moneta di riferimento, sconvolgendo spesso i mercati valutari con il suo irrefrenabile apprezzamento.
Il trattato di Maastricht 
Sottoscritto nel febbraio 1992 - poco prima, cioè, che sull'Europa si abbattesse la scure di una nuova, e più pesante, fase di recessione economica - il trattato di Maastricht rappresenta una tappa decisiva nella costruzione di un'Europa comunitaria. Con esso i vari stati nazionali ribadiscono la loro volontà di arrivare a una più stretta collaborazione economica, adottando una moneta unica e una banca centrale comune, e stabilendo tempi e criteri per giungere a questo obiettivo. Viene poi prefigurata l'introduzione di una sorta di "cittadinanza europea", con la quale i cittadini comunitari potranno godere di particolari diritti politici e sociali.
La grande novità del trattato, però, è quella di prevedere una "politica estera di sicurezza comune" (Pesc). Per la prima volta, dunque, l'Unione europea si propone concretamente un obiettivo non strettamente economico nell'ottica di un maggiore coordinamento delle rispettive linee di politica estera.
Il rispetto degli accordi di Maastricht crea però una serie di problemi: in molti paesi dell'Unione europea una parte dell'opinione pubblica accetta con molta difficoltà l'idea di intaccare l'autonomia degli stati nazionali e, inoltre, i paesi economicamente più forti temono di dover sostenere costi eccessivamente elevati per favorire lo sviluppo delle nazioni a economia depressa.
Si fa strada a più riprese l'idea di far procedere il cammino verso l'integrazione su due binari: uno per le nazioni più forti (il cosiddetto "nocciolo duro" formato dall'asse franco-tedesco e dal Benelux) che hanno le carte in regola per rispettare il trattato di Maastricht nei termini previsti; l'altro per le nazioni più deboli, che ancora non sono riuscite ad adeguarsi ai criteri fissati a Maastricht (l'Italia farebbe parte di questo secondo gruppo).
L'idea di una "Europa a due velocità", tuttavia, indebolirebbe non poco la forza dell'Unione Europea come compagine unitaria, capace di porsi come punto di riferimento economico e politico nel mondo intero. D'altra parte il divario economico, in alcuni casi di un certo rilievo, tra i vari stati è una realtà dalla quale non è possibile prescindere, e che viene anzi progressivamente aggravata dal ruolo sempre più condizionante svolto dall'economia e dalla moneta tedesca, anche dopo la riunificazione delle due Germanie. Il problema resta dunque più che mai aperto.
Il governo dell'EuropaGli organi di governo dell'Unione Europea sono Parlamento europeo, Consiglio, Commissione, Corte di giustizia e Corte dei conti. Il Parlamento europeo, formato da deputati eletti ogni cinque anni dai cittadini degli stati membri, ha poteri deliberativi e di controllo della Commissione. Il Consiglio, che si occupa di coordinare la politica economica generale, è composto dai ministri (uno per ogni stato) competenti nelle materie che di volta in volta sono oggetto di discussione: ambiente, lavoro ecc.
La Commissione è formata da commissari nominati dai rispettivi governi, che restano in carica quattro anni ed esplicano funzioni esecutive, ciascuno nel proprio settore. Il Consiglio e la Commissione emanano regolamenti, risoluzioni, direttive o pareri. La Corte di giustizia, composta da giudici nominati concordemente dagli stati ogni sei anni, decide sulle controversie tra gli stati o giudica i ricorsi presentati contro provvedimenti del Consiglio o della Commissione. La Corte dei conti, composta da dieci membri designati dal Consiglio, controlla i conti della Comunità e di ogni organismo da essa costituito.
La Gran Bretagna dopo la Thacher 
Nel novembre 1990 termina in Gran Bretagna, dopo undici anni, l'era di Margaret Thatcher, costretta alle dimissioni da una mozione di sfiducia presentata da alcuni membri del suo stesso partito. La rigidità ultraliberista della sua politica economica e l'intransigente spirito antieuropeista della "lady di ferro" erano infatti diventati sempre più impopolari sia all'interno sia presso i partner comunitari.
Come successore della Thatcher viene nominato John Major, anch'egli esponente del Partito conservatore, ma fautore di una linea politica più moderata e meno incline allo scontro sociale. Major si trova subito a dover gestire una situazione economica difficile, caratterizzata da una notevole ripresa produttiva, a prezzo, però, di profondi squilibri sociali: la disoccupazione tocca punte del 15% e larghe aree del paese (in particolare le Highlands scozzesi e la regione di Liverpool-Manchester) si trovano in una condizione di profonda depressione economica, tanto che per la prima volta la Cee concede loro gli aiuti straordinari previsti per le aree più povere d'Europa.
Lo sforzo del governo Major è dunque quello di limitare gli eccessi del "thatcherismo" pur restando nel solco di un'economia di mercato, e nel contempo di rassicurare gli altri stati della Cee sulla reale volontà della Gran Bretagna di partecipare a pieno titolo al processo di integrazione europea.
Il problema dell'Irlanda del Nord 
Il maggiore risultato conseguito da Major è l'avvio a soluzione del problema nordirlandese. Da 25 anni, infatti, perdura nell'Ulster un doppio conflitto: da una parte l'Ira (l'Esercito repubblicano irlandese) combatte la sua guerriglia terroristica contro il governo di Londra; dall'altra infuria la guerra civile tra la comunità cattolica e nazionalista, fautrice dell'unificazione con l'Eire, e quella protestante, che non intende separarsi dalla Gran Bretagna.
Dopo lunghe trattative ufficiose tra Major e Gerry Adams, leader del Sinn Feinn (braccio politico dell'Ira), si giunge, il 31 agosto 1994, alla storica dichiarazione con la quale l'Ira annuncia un cessate il fuoco unilaterale, condizione preliminare alla stipulazione di un accordo con le autorità inglesi.
In base a tale accordo la Gran Bretagna non avrà più il controllo totale dell'Ulster e la Repubblica d'Irlanda si impegnerà a non annettersi, per il momento, le sei contee dell'Irlanda del Nord, il cui governo verrà affidato a una forma di sovranità congiunta e ogni decisione sul futuro dell'Ulster dovrà essere presa dalla popolazione stessa.
Si tratta finalmente di un primo, significativo passo verso un riassetto definitivo della martoriata regione irlandese.
La Francia da Mitterrand a Chirac 
A partire dal 1986 in Francia i socialisti del presidente Mitterrand subiscono un progressivo declino elettorale, a vantaggio dei partiti di centro-destra sostenitori di una politica economica di tipo neoliberista. Mitterrand, rieletto alla presidenza della repubblica nel 1988, si trova dunque costretto al cosiddetto "regime di coabitazione" con un governo di diverso orientamento politico, e questo comporta alcuni problemi: secondo la Costituzione francese, infatti, il presidente, che è eletto direttamente dal popolo, oltre a nominare personalmente i membri del governo è anche il capo delle forze armate, e ciò gli conferisce il diritto di esercitare una forma di supervisione sulla politica estera e di difesa nazionale. Vi è dunque il rischio reale che venga a crearsi un conflitto tra il governo e il presidente.
Il carisma e il prestigio, anche internazionale, di Mitterrand, oltre che la sua sensibilità politica, gli consentono comunque di aggirare le difficoltà; egli si trova però a guidare la Francia confrontandosi non solo con il centro-destra di ispirazione neogollista, ormai maggioritario nel paese, ma anche con l'emergente Fronte nazionale di Jean-Marie Le Pen, un movimento di estrema destra razzista e xenofobo, che fa leva soprattutto sul malcontento popolare e sulle tensioni sociali presenti nelle regioni a più forte tasso di immigrazione.
L'era di Mitterrand - scomparso nel gennaio 1996 - termina dopo quattordici anni di permanenza all'Eliseo, nel maggio 1995, quando le elezioni presidenziali sanciscono la vittoria di Jacques Chirac, sindaco di Parigi ed esponente del partito neogollista Rassemblement pour la république.
Il nuovo presidente sancisce fin dall'inizio un profondo mutamento di rotta rispetto a Mitterrand: ne sono esempio la linea politica fortemente interventista nei confronti della guerra bosniaca e, soprattutto, la ripresa dei test nucleari al largo della Polinesia, interrotti dal suo predecessore nel 1992 in nome della difesa dell'ambiente e della messa al bando di tutte le armi nucleari. La decisione di Chirac di riprendere gli esperimenti susciterà un coro di proteste da parte dell'opinione pubblica e dei governi di tutto il mondo.
L'Occidente tra immigrazione e razzismo 
Un altro grave problema che l'Unione europea si trova a dover fronteggiare è quello del crescente tasso di immigrazione, per lo più clandestina, proveniente dalle nazioni extracomunitarie.
Il divario tra paesi ricchi e paesi poveri, tra nord e sud del mondo (ma spesso anche tra est e ovest del pianeta), va infatti accentuandosi, e migliaia di persone provenienti da ogni parte della Terra affrontano viaggi massacranti, in condizioni di massimo rischio e senza alcuna prospettiva certa per il futuro, pur di raggiungere l'Europa occidentale.
Questo fenomeno, andando a innestarsi direttamente sulla grave crisi economica e occupazionale che caratterizza l'Europa dei primi anni Novanta, determina in alcune fasce di popolazione una reazione irrazionale, apertamente xenofoba e razzista, che raggiunge livelli allarmanti soprattutto in Germania, in Francia e in Italia. Ciò che preoccupa maggiormente è che tale tendenza è spesso sostenuta da movimenti politici di estrema destra che hanno un notevole seguito nell'opinione pubblica.
Di fronte a queste massicce ondate migratorie, che determinano un innegabile e concreto disagio sociale, tutti i paesi dell'Europa occidentale cercano anzitutto di creare barriere in grado di reprimere o di rendere difficile l'afflusso e la permanenza sul proprio territorio degli immigrati extracomunitari.
Del resto nessuna politica di rigore sul fronte dell'immigrazione clandestina può avere successo se non è accompagnata da un equo programma di sostegno nei confronti dei paesi più poveri; un sostegno che non deve limitarsi a un semplice contributo economico, ma che deve prevedere concrete misure in grado di favorire dall'interno la crescita politica ed economica di quegli stati.

Nessun commento:

Posta un commento

Eddai, commentate.... per favore! ...*guarda in basso*